Proprio in questi giorni l’Istat ha rifatto i conti relativamente al periodo 2020/2024. Un quinquennio decisamente difficile, segnato dall’epidemia di Covid (2020) e dal gelo che ne é seguito. Con un Pil che solo in quell’anno era diminuito dell’8,9%. Crollo dei consumi e degli investimenti, decumulo delle scorte prodotte in precedenza, contributo negativo da parte dell’estero. Nel 2021 l’economia italiana si era, seppur parzialmente ripresa, ed ecco apparire all’orizzonte, come in un videogioco un mostro ancora più vorace: l’aggressione da parte di Putin nei confronti dell’Ucraina e l’inizio di quel conflitto che tutt’ora produce migliaia di morti e di feriti.
Né si può dire che il quinquennio precedente fosse stato particolarmente felice. Il governo giallo-verde prima, ma soprattutto quello giallo-rosso, con l’aiuto di qualche sociologo sognatore, avevano creato l’illusione che il problema della “scarsità”, croce del pensiero economico tradizionale, potesse essere archiviato. Sarebbe stato sufficiente ricorrere al reddito di cittadinanza o ai vari bonus per l’edilizia per rimettere in moto un circolo virtuoso in cui riconciliare domanda ed offerta. E rendere tutti felici e contenti. Nel frattempo, il debito pubblico italiano cresceva a ritmi vertiginosi, mai così alti dagli inizi degli anni ‘70. Per collocarsi al 154,4% del Pil nel 2020. E poi scendere, ma solo lentamente e con enormi sacrifici. Ultimo dato (rivisto) per lo scorso anno: il 134,9% del Pil, contro il precedente 135,3.
Lasciando da parte questi precedenti, anche se come si vedrà ce li troveremo tra i piedi, è bene guardare a quei numeri la cui reale comprensione può portare se non ad una pace, almeno ad una tregua. Interrompere quel gioco al massacro del “va tutto male” da contrapporre al “va tutto bene”. Per capire che molto è stato fatto. Ma che altrettanto rimane da fare. Il primo elemento che balza agli occhi è dato dallo sforzo, prodotto dal Governo Draghi, per colmare l’enorme buco del 2020. L’anno del Covid e del grande gelo. Allora i consumi interni avevano contribuito per il 6,3% alla caduta del Pil, cui si era aggiunta una flessione degli investimenti per un valore pari all’1,3%. Il resto era dato dal contributo negativo delle scorte e della domanda estera.
C’erano voluti due anni per recuperare quelle perdite. Grazie ad un aumento dei consumi interni che nel 2021 e l’anno successivo avevano alimentato una crescita dei consumi interni per 3,9 e il 3,1. Quindi una più forte ripresa degli investimenti: 3,9 nel primo e 1,5 nel secondo. Altri contributi positivi da parte delle scorte, mentre l’estero rimaneva negativo. Azzerato quel dislivello iniziale, il successivo Governo Meloni era stato costretto a fronteggiare la crisi derivante dal primo anno di guerra in Ucraina, con il conseguente indebolimento del ciclo internazionale, che quell’evento era destinato a produrre. Il Pil italiano era rimasto in zona positiva, ma con valori così modesti (1% nel primo e 0,7 nel secondo) da non poter essere osannati.
Basti pensare, ad esempio, che i consumi interni vi avevano contribuito solo per lo 0,5%. Il più era venuto dagli investimenti (2,2% nel primo anno e 0,1% nel secondo) soprattutto grazie al traino della domanda estera netta, che vi aveva inciso per lo 0,6% nel primo anno e solo dello 0,1 nel secondo. Comunque bene. Considerato il marasma che caratterizza, tutt’ora, le relazioni internazionali. E che incide tanto sui mercati di esportazione, quanto sulle catene del valore da cui dipende la produzione ultima di tanti beni.
Negli anni considerati il peso degli investimenti era stato determinante, grazie anche al PNRR. Ma al di là di questo aspetto, che merita una contabilizzazione a parte, quel relativo boom era da attribuire quasi interamente agli investimenti nelle costruzioni. Riflesso non solo del super bonus del 110%, ma del complesso di provvidenze (bonus facciate, bonus mobili, bonus sismico e via dicendo) elargite, con nobili intenti e tanti sospetti di ripetere, seppure su basi diverse, il colpaccio politico del reddito di cittadinanza.
Di fronte a simili affermazione Giuseppe Conte potrebbe tirare un sospiro di sollievo. Ve l’avevo detto, grazie alla più classica manovra keynesiana, i 5 Stelle, al Governo, hanno dato un contributo determinante alla salvezza dell’Italia. Ovviamente nei dati ISTAT esiste traccia del fenomeno. Di fronte ad una crescita media, nel quinquennio, del Pil pari all’1,3%, il valore degli investimenti vi ha contribuito per il 4,3%, di cui il 3,8% rappresentato dalle costruzioni. Che rispetto alla media degli anni precedenti, nel periodo 2021/2024, sono aumentate cumulativamente di circa 288 miliardi di euro. Tutto bene allora? Si, salvo un particolare. Il contributo statale rispetto a quegli investimenti è stato dell’ordine di 225 miliardi. Con una percentuale pari al 78%. Un buon affare quindi per coloro che ne hanno approfittato, un po’ meno per quei contribuenti poi chiamati a rifondere le casse dello Stato.
Ma visto che siamo in argomento è bene non limitarsi solo a queste considerazioni. Negli anni clou della grande abboffata, il tasso medio d’inflazione – il cosiddetto deflatore del Pil – era stato pari in media al 2,4%. Nel comparto costruzioni, invece, del 6,7%. Il perché di questo distacco? Nell’arrembaggio indotto dall’accaparrarsi il materiale necessario – a partire dai ponteggi – per poter realizzare l’opera a spese del contribuente. Da qui l’eccesso di domanda destinata a scontrarsi con un’offerta insufficiente ed il conseguente aumento dei prezzi relativi .
Quel salto è stato così brusco da condizionare le stesse dinamiche del mercato del lavoro. Nel quinquennio le retribuzioni complessive, secondo l’Istat sono aumentate in media del 4% all’anno. Ma nel comparto delle costruzioni, invece, la media é stata più del doppio, raggiungendo l’8,6%. Che depurata da un tasso d’inflazione pari al 2,9% fa un aumento delle retribuzioni effettive del 5,7%. Non male per un settore da sempre ai margini del benessere sociale. Ma anche la dimostrazione che a volte in Italia ci si straccia le vesti a prescindere. Quel 4% di aumento medio delle retribuzioni complessive, va infatti comparato con un tasso medio d’inflazione molto minore (2,9%). A rimetterci sarebbero solo alcune categorie (agricoltori, pescatori, pubblici dipendenti) ma non il resto dei lavoratori. Certo quell’1 per cento in più non è una grande cifra. Ma è comunque tale da non giustificare il pianto.