Prosegue la partita sull’equo compenso.
Roma, e in particolare l’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che si era mossa a tutela degli editori italiani contro il colosso dei social (e non solo, viste le sue mosse su EssilorLuxottica e sull’Ai) Meta, segna un primo punto su Mark Zuckerberg, da sempre restio come tante altre Big Tech estere, soprattutto americane, a riconoscere e compensare il diritto d’autore. L’avvocatura generale della Ue, infatti, nel parere fornito ai giudici chiamati a decidere del caso, sostiene che sia legittimo adottare misure a tutela del diritto di autore e un compenso per lo sfruttamento dei contenuti giornalistici da parte delle piattaforme social.
LA VICENDA
La società di Zuckerberg aveva impugnato la delibera n. 3/23/CONS del 19 gennaio 2023 nata proprio su impulso delle lagnanze degli editori per imporre alle piattaforme online di corrispondere un “equo compenso” per la diffusione dei contenuti giornalistici sulla base dei ricavi pubblicitari generati proprio in virtù dello “sfruttamento” degli stessi articoli.
La tesi era la seguente: i social sono sì popolatissimi, ma a livello contenutistico paragonabili a enormi scatoloni vuoti. Sempre più statistiche dicono che gli italiani li usano come prima fonte di informazione: ciò significa che gli utenti si scambiano tra loro, anche semplicemente pubblicando o ripostando nella loro bacheca al fine di ottenere interazioni e commenti dalla propria rete di amicizie, articoli di giornale. Con un beneficio solo per i signori che hanno in mano le chiavi dei social, visto che quegli articoli aumentano il tempo di permanenza dell’utente sulle piattaforme.
Insomma, quei rilanci fanno contenuto, generano traffico, diventano virali. E fanno bene all’adv che, meglio non dimenticarlo, è il core business di Menlo Park. E allora serviva ristorare chi quelle notizie le scrive con un equo compenso, principio introdotto dalla Direttiva (UE) 2019/790 che doveva essere poi fatto valere con norme ad hoc nelle singole discipline nazionali.
L’ITER GIUDIZIARIO SULL’EQUO COMPENSO
Il punto, però, almeno per la company statunitense, stava proprio nella via percorsa da Roma per dare attuazione all’equo compenso, con l’Agcom che a suo dire avrebbe oltrepassato i confini del proprio ruolo immischiandosi nella contrattazione tra privati. Si dirà che Meta, colosso americano rimasto invischiato in una questione giuridica tutta italiana, giocasse la propria partita in un campo avverso. Magari persino ostile.
IL TAR AVEVA DATO RAGIONE A META SOSPENDENDO IL REGOLAMENTO AGCOM
Affatto. I giudici amministrativi del Lazio, chiamati a sindacare sul ricorso presentato da Menlo Park contro Gedi con la sentenza numero 18790, avevano infatti deciso di accogliere le istanze del colosso di Menlo Park sospendendo il regolamento dell’Agcom erga omnes, in quanto, secondo il Tar, l’Autorità italiana aveva valicato i limiti discendenti dalle norme comunitarie in materia. E, per delucidazioni, avevano inoltrato il fascicolo alla Corte di Giustizia Ue che dovrà appunto dire la sua.
IL SECONDO TEMPO SULL’EQUO COMPENSO
L’Agcom dal canto suo, assistita dall’Avvocatura dello Stato e affiancata dalla Federazione Italiana Editori Giornali, aveva subito fatto ricorso ribadendo ai magistrati del Consiglio di Stato la capitalizzazione di Borsa della società messa in piedi da Mark Zuckerberg: oltre 1.190 miliardi di dollari.
Difficilmente l’equo compenso previsto dal diritto Ue la danneggerebbe in qualche modo, anche laddove la norma italiana si fosse spinta “troppo in là”. Mentre non si può dire lo stesso degli italici editori che, è noto, non versano sempre in buone condizioni. Sempre l’Agcom sottolinea che il suo regolamento non obbliga certo le società di Internet al versamento dell’equo compenso.
COSA AVEVA DECISO IL CONSIGLIO DI STATO
Ed è la tesi accolta dal Consiglio di Stato che, nello scongelare il Regolamento dell’Autorità disinnescando la pregressa sentenza del Tar laziale, ha sentenziato che “i pregiudizi prospettati da Meta Platforms non sono concreti ed attuali (si paventa un futuro rischio sanzionatorio)” e non sarebbero “neanche gravi e irreparabili”. Inoltre – ed è un passo particolarmente importante per chi sostiene che l’Autorità italiana abbia troppi poteri – “il regolamento allegato alla delibera Agcom prevede di fatto un meccanismo per giungere a un accordo ma resta ferma la facoltà di adire il giudice competente”.
Insomma, l’Agcom non si sostituisce certo alla giustizia ordinaria, che resta una strada percorribile per le parti in causa. In più, anche in caso di condanna, Meta avrebbe comunque le spalle sufficientemente larghe per versare quanto richiesto persino nel caso in cui la Corte di Giustizia Ue chiedesse di tirare un tratto di penna sull’intera faccenda.
L’ULTIMA PAROLA SPETTA ALLA UE
Resta quindi da attendere cosa sentenzierà la Corte di Giustizia Ue. Per il momento, l’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea Maciej Szpunar ha fornito un parere che dà ragione a Roma sull’equo compenso. Non va inteso come una anticipazione della sentenza, ma i giudici dovranno comunque tenerne conto.
Secondo l’Avvocato generale “misure quali l’obbligo per i prestatori di servizi della società dell’informazione di avviare trattative, di fornire determinate informazioni o di non ridurre la visibilità dei contenuti degli editori durante tali trattative non sono, in linea di principio, contrarie alla direttiva, in quanto non obbligano a concludere un contratto o ad effettuare un pagamento in assenza di un utilizzo effettivo o previsto”.
Insomma, l’impianto italiano può coesistere con quello europeo, non ci sarebbe un affievolimento della libertà di stampa e l’Agcom non avrebbe valicato i suoi poteri. Esulta forse anzitempo uno dei commissari più ciarlieri dell’Autorità, Massimiliano Capitanio: ” Il lavoro giornalistico va pagato”, scrive sulla propria pagina LinkedIn, aggiungendo: “Il comunicato stampa pubblicato in mattinata lascia intendre la normativa italiana e la delibera Agcom siano corrette. Lo spirito della Direttiva che è, come ricorda anche l’Avvocato generale, “rafforzare la sostenibilità economica della stampa, pilastro fondamentale della democrazia”.
Ma è ancora troppo presto per cantare vittoria, perché come si anticipava la Corte potrebbe anche non tenere in considerazione i pareri dell’Avvocato generale.