Che cosa accomuna una particella subatomica e una terzina dantesca? Un elettrone e una metafora? Entrambi sono invisibili, carichi di energia e capaci di agire sul mondo e cambiarne la struttura.
Da questa intuizione prende forma La materia di Dante (Longo, 2024), il nuovo saggio di Ambrogio Camozzi Pistoja, studioso specializzato in filologia medievale e docente di Italian Studies alla Harvard University. Il libro propone una lettura interdisciplinare del poema dantesco a partire da un’idea semplice quanto potente: la materia non è muta né inerte, ma dotata di una forza creatrice. Se la Commedia è stata spesso interpretata solo come un viaggio dell’anima verso la salvezza, qui se ne riscopre tutta la fisicità: un poema attraversato da materia viva che muta e prende forma nei suoi stessi versi.
Nel pensiero occidentale, la materia è stata tradizionalmente intesa come pura potenzialità. Aristotele la definiva il sostrato grezzo (hyle) pronto a ricevere una forma (morphē), mentre la Genesi parla di una “terra informe e vuota” da cui, per effetto del fiat divino, scaturisce il cosmo ordinato. Camozzi Pistoja si rifà a queste premesse per mostrare che anche per Dante la materia non è passiva: al contrario, è forza viva, un principio dinamico che il poeta deve plasmare.
L’autore ci fa immaginare Dante al tavolo di lavoro intento a domare il caos: un abaco per i calcoli, delle tabelle numeriche e un rimario. Tutti strumenti con cui il poeta, al pari di un architetto, disegna la planimetria del poema, dando un ordine alla materia ribelle, viva e mutevole del mondo. La Commedia emerge così come un’officina poetica dove la parola dantesca forgia l’esperienza in forma armoniosa e, per quanto possibile, a prova di corruzione del tempo.
Riprendendo l’immagine classica della cera e del sigillo: la materia è come cera che esiste davvero solo quando una forma viva la imprime. Ma cosa accade quando la materia, non più trattenuta dalla forma, si dissolve? Camozzi Pistoja introduce qui un’immagine potente: la materia che ritorna al suo stato originario, “un vuoto pneumatico (…) che nella fisica moderna si chiama rilassamento energetico” (Camozzi, pag.65) – ovvero materia che perde la sua configurazione ordinata e ricade in uno stato di indeterminazione potenziale. Come le fertili ceneri della fenice. Questa dinamica di perpetua oscillazione tra forma e dissoluzione è, nella Commedia, la base stessa della caducità del reale, incluso il linguaggio che, pure, si struttura e si disgrega con la materia che descrive.
Nei canti XXIV e XXV dell’Inferno, ad esempio, Dante descrive la bolgia dei ladri: continuamente violati da rettili, i dannati perdono la forma umana, diventano mostri, figure ibride in cui l’animale e l’umano si confondono “come le facce macellate degli studi di Francis Bacon” (Camozzi, pag.67). Non è solo un orrore morale o biologico: è un’esplosione della forma, una crisi del principio ordinatore che tiene insieme la materia. Non a caso questo collasso si riflette anche sul linguaggio: le parole dei ladri diventano ambigue, spezzate, difficili da comprendere, e con esse anche il verso dantesco si deforma. È il culmine della visione “materiologica” della Commedia. Dante ci mostra come la poesia possa farsi esperienza incarnata del disordine: le rime, le allitterazioni e le immagini di metamorfosi si intrecciano, con il risultato di replicare in chi legge lo stesso smarrimento provato dal personaggio dantesco nella valle dei ladri.
Le trasformazioni mostruose e le pene fisiche che percorrono la Commedia non sono, per Camozzi Pistoja, semplice fantasia macabra: riflettono una profonda etica del corpo. Nel pensiero medievale, e in Dante in particolare, il corpo ha una valenza morale essenziale. I dannati, anche se privi del corpo, soffrono pene fisiche; nel Paradiso, i beati attendono la resurrezione dei corpi per giungere ad una felicità piena. Ci si può chiedere se questo sguardo “materialista” non rischi di oscurare altre dimensioni spirituali del poema, ma è proprio nel corpo, come mostrano questi canti, che si gioca l’etica dantesca.
Il legame tra spirito e materia è per Dante inscindibile: il peccato e la virtù si imprimono nella carne, si rivelano negli atti concreti degli uomini. Un esempio di questo è Vanni Fucci, il ladro punito tra i serpenti. La decisione di Dante di collocare un discorso sulla materia proprio nell’episodio che lo rappresenta non sarebbe casuale. Camozzi Pistoja ipotizza persino un’allusione biografica: il furto di un quaderno contenente i primi sette canti dell’Inferno, messo in salvo in un monastero e che, secondo alcuni racconti, Fucci avrebbe trafugato mentre Dante era in esilio alla corte di Moroello di Malaspina. Al di là dell’aneddoto, il messaggio è chiaro: profanare la materia sacra significa violare l’ordine cosmico. In questa prospettiva, la punizione di Fucci, un ciclo perpetuo di metamorfosi mostruose, esprime una verità centrale nella visione di Dante: il corpo umano, luogo dell’azione morale, riflette nel proprio disordine fisico il disordine etico dell’anima.
La materia pura, sfuggente “capacità di essere” (Camozzi), da secoli sfida filosofi e scienziati. Attraverso la lente di Camozzi Pistoja, colpisce quanto certe intuizioni di Dante trovino risonanza nelle domande della scienza contemporanea: l’idea di un universo ordinato nato da un caos primigenio, l’intuizione di forze invisibili che muovono il mondo, la tensione tra inerzia e moto continuo della materia.
Il saggio ha il merito di far dialogare saperi diversi – dalla filosofia medievale alla fisica quantistica, passando per l’alchimia, la Cabala e la teologia – mettendone in luce gli echi inattesi. A unirli è una tensione condivisa: la ricerca del senso ultimo del reale e il sospetto profondo, mai sopito, che la verità si dia nell’unione di forma e materia.
In conclusione, La materia di Dante ci restituisce l’immagine di un Dante non solo poeta morale o civile, quanto piuttosto artigiano del cosmo. Una lettura che non esaurisce la complessità della Commedia, ma ne illumina una componente spesso trascurata: la sua corporeità concettuale. Dalle leggi matematiche che reggono la struttura dei canti alle metamorfosi infernali, il poeta emerge come colui che tenta di trasformare il caos in ordine, sia esso il magma della condizione umana o quello della pagina bianca da riempire.
Questa lettura raffinata e percettiva richiede tutti i sensi all’erta – non solo la mente, ma anche l’intuizione e l’immaginazione – e in cambio, arricchisce la Commedia di sfumature nuove e inattese. L’immagine che resta, chiudendo il libro, è Dante chino sul suo banco, circondato da schemi e appunti, mentre getta la sua “corda poetica” (Inf., XVI) nell’abisso del reale per domare, come Aristeo nella selva, i mostri del caos e dar loro forma nel disegno cosmico del poema. Ma il suo gesto parla ancora una volta a noi: in un mondo che cura il corpo e dimentica l’anima, Dante ci ricorda che solo attraversando il buio – e toccandolo con mano – si può tornare a cercare la luce. E allora sì, si può “uscire a riveder le stelle” (Inf. XXXIV,139).