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Dante

Dante in camicia nera

Il Bloc Notes di Michele Magno

So di dire una cosa molto forte, ma penso che il fondatore del pensiero di destra italiano sia Dante Alighieri, [perché la sua] visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia credo siano profondamente di destra (Gennaro Sangiuliano alla kermesse elettorale di Fdi, Milano, 14 gennaio 2022).

Al nostro ineffabile ministro della Cultura -si sa- piace stupire, spiazzare, sparigliare le carte del politicamente corretto. Nei giorni scorsi hanno sollevato un mare di polemiche le sue parole su Dante campione della destra patria. Molto rumore per nulla e niente di nuovo sotto il sole. Perché la sua battuta ha una lunga storia, che affonda le sue radici nel ritratto del sommo poeta con la “camicia nera” celebrato nel corso del Ventennio. Una specie di controfigura del Duce, di cui avrebbe pronosticato l’avvento in quel verso del canto trentatreesimo del Purgatorio in cui si annuncia un DVX liberatore dell’Italia dalle divisioni e dalle guerre: “un cinquecento diece e cinque,/ messo di Dio, anciderà la fuia/ con quel gigante che con lei delinque” -dove il numero romano per 515, DXV, viene anagrammato per indicare il vendicatore dell’alleanza a delinquere tra la puttana, la curia papale corrotta, e il gigante, il regno di Francia. Una interpretazione fantasiosa divulgata dallo storico Domenico Venturini in un pamphlet intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini (1927), che si chiude così: “Lo scopo precipuo di quest’opera è stato quello di mettere in evidenza i punti di contatto che esistono tra il sistema politico ideato da Dante e quello attuato dal Duce Magnifico. Noi fascisti dobbiamo aver presente che Dante ha vagheggiato gli stessi ideali politici, morali, religiosi messi in essere dall’Era Fascista […]”.

La figura di Dante era molto cara allo stesso Giorgio Almirante, laureatosi in Lettere a Roma nel 1937 con una tesi sulla fortuna settecentesca dell’Alighieri. E fu proprio lui che, durante un incontro a Napoli, suggerì a un giovanissimo Gennaro Sangiuliano di coltivare la passione per il grande fiorentino. Come ha osservato Stefano Jossa (Per Dante, svolta a destra, doppiozero, 16 gennaio 2023), la “vision dell’Alighieri/oggi brilla in tutti i cuor” era del resto il richiamo decisivo del testo scritto nel 1925 da Salvator Gotta per “Giovinezza”, l’inno nazionale fascista. Emblema di quella retorica che risale alla famosa sentenza risorgimentale del conte Cesare Balbo, secondo cui “Dante fu l’Italiano più italiano che sia stato mai” (Vita di Dante, 1839), e che culmina nella sintesi di Giovanni Gentile, per il quale “con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia” (Dante nella storia del pensiero italiano, 1904).

Durante il Ventennio non c’era discorso ufficiale, dal primo gerarca all’ultimo direttore didattico, che  non riconoscesse il primato di Dante tra le glorie della stirpe italica di poeti, santi, eroi e navigatori. Nelle opere di Dante, ma anche in quelle di Francesco Petrarca, la critica letteraria fascista offriva la visione di un’Italia non solo libera ed unita, ma potente ed imperiale. Il poema epico Africa di Petrarca diventa così il precursore della vocazione imperiale del paese. Se l’autore del Canzoniere viene utilizzato per sacralizzare l’impresa coloniale, l’autentica funzione di Dante è svelata per la prima volta dal fascismo, afferma una personalità di spicco della politica culturale del regime, il senatore Emilio Bodrero: “Solo oggi noi possiamo comprendere Dante Italiano e Imperiale, perché tale è il Fascismo di Benito Mussolini, Italiano e Imperiale; solo oggi possiamo riconoscere in Dante il profeta del nostro destino” (Nuova Antologia, 1931).

Dal canto suo, Gentile nega che vi sia contraddizione tra l’idea dantesca dell’impero universale e l’idea di uno stato nazionale forte. L’impero non trascende lo stato italiano, ma lo integra, e anzi ne fa il suo centro. Nel discorso che pronuncia nella romana Casa di Dante (La profezia di Dante, febbraio 1918) pochi mesi dopo la sconfitta di Caporetto, per lui specchio dell’Italietta liberale e individualista, si chiede: “Che cosa è lo Stato? Si chiami impero con Dante, o si chiami altrimenti, lo Stato è quello a cui Dante mira con la sua universale monarchia: unum velle, unum nolle (principio per cui il volere e quindi la libertà dell’individuo confluisce e si fonde nel volere e nella libertà dello stato etico). Concezione che precisa in un paragrafo successivo, dove afferma: “La profezia di Dante è anche di averci ammonito sul fatto che non vi può essere sana politica senza fede religiosa. La vita dello Stato infatti è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un‘idea, proprio come ogni Chiesa insegna”.  Non per caso i Patti Lateranensi del 1929 verranno presentati come la realizzazione del sogno dantesco di una collaborazione tra potere spirituale e potere temporale, volta al perfezionamento morale dell’uomo. L’ermetico Veltro di Dante, in altri termini, con il Concordato si era finalmente svelato nell’Italia mussoliniana.

Per concludere, la risposta più debole che si può dare alle tesi spericolate di Sangiuliano è che Dante non è né di destra né di sinistra, perché è soltanto italiano: ciò che Dante non fu mai, semplicemente perché per lui non era neppure concepibile esserlo, oscillando il suo pendolo politico tra il municipale (Firenze) e l’universale (l’impero). Forse dovremmo interrogarci non se Dante sia di destra o di sinistra, che è questione assurda e ridicola, ma su cosa vogliano dire nel tempo presente destra e sinistra. “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello! (Purgatorio, canto VI).

 

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