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Perché Meloni deve collaborare con Merz

Come l'Italia con Meloni può e deve muoversi in Europa. L'analisi di Polillo

L’Italia deve stare con Friedrich Merz, il neo cancelliere tedesco o con Mark Carney, l’attuale Primo ministro del Canada? Probabilmente con entrambi, verrebbe da dire. Essere amico dell’uno non significa, infatti, non poterlo essere anche dell’altro. Ma, a quanto sembra, non tutti la pensano allo stesso modo. Per Mario Monti, infatti, dalle pagine del Corriere della sera, la scelta è netta. In polemica con Donald Trump, l’invito ch’egli rivolge a Giorgia Meloni è quello di partecipare ad “una coalizione di Paesi”, che “credano nella cooperazione internazionale e nel libero e aperto scambio di beni, servizi e idee”; secondo l’ipotesi lanciata da Re Carlo III del Regno Unito e del Commonwealth, nel suo discorso al Parlamento canadese, dello scorso 27 maggio.

Il tutto in forte polemica con la politica del Presidente americano. Colpevole di aver divelto i cardini dell’ordinamento democratico ogni qual volta essi ostacolino i suoi “interessi personali” o “dei suoi prossimi oppure se vengono visti come inciampi all’immediata messa in opera di misure che egli, forte del mandato elettorale, deve poter attuare prescindendo dai vincoli dell’ordinamento”. Insomma una specie di despota alla testa di un Paese democratico.

Lungi da noi volerci imbarcare in una discussione sulla figura di Donald Trump. Il cui successo elettorale andrebbe comunque analizzato. Accennando, semmai, a quella crisi della società americana che lo spinge alla ricerca affannosa di soluzioni “non convenzionali” destinate forse a recare più danni che possibili rimedi. Una discussione tutta interna alla società americana, di cui, forse per la prima volta, si cominciano a vedere i possibili sviluppi. Fosse questo l’approccio, anche l’atteggiamento verso gli Stati Uniti sarebbe diverso. Distinguendo tra una leadership comunque temporanea, e la storia più profonda di quel Paese, destinata prima o poi a riemergere come un torrente carsico. Questo almeno l’auspicio.

Spostare, invece, la barra verso giudizi definitivi, come quelli contenuti nell’articolo, comporta rischi evidenti. Monti ritiene, infatti, che, a causa della cattiva politica americana “leader come Xi Jinping o Vladimir Putin stiano guadagnando prestigio e influenza.” Stiano, in altre parole, vincendo. Il che è, per lo meno, azzardato. Non tanto nel caso della Cina, che continua la sua politica di espansione commerciale e finanziaria, quanto della Russia di Putin, alle prese con una latente crisi economica, che la spinge sempre più sull’orlo di un default. Si pensi solo ad un’inflazione, che la Banca centrale non riesce a dominare, nemmeno con un tasso di riferimento annuo del 21%.

Il discorso pertanto è destinato a spostarsi su un versante diverso. Gli interessi di fondo dei due protagonisti – Jinping e Putin – non sono del tutto coincidenti. Entrambi puntano ad un diverso ordine mondiale, non più caratterizzato dall’egemonia dell’Occidente. Ma mentre la Cina, prescindendo dal problema di Taiwan, con il suo soft power ha già creato le condizioni per determinare quello smottamento, la Russia deve ricorrere all’azione militare. Soprattutto deve agire nei confronti dell’Europa. Dove sono appunto i territori da riconquistare per riaffermare, come nel ‘900, la propria logica di potenza.

Dopo il crollo del muro di Berlino, è stata la NATO a bloccare simili velleità. Tant’è che l’espansione di Putin (Georgia, Crimea ed ora il Donbas) è coincisa con i momenti di relativa debolezza dell’Alleanza atlantica. Ne deriva pertanto che solo una NATO forte é in grado di esercitare la necessaria azione di deterrenza. E quella forza non può che derivare dalle sue due gambe: quell’americana, con il suo arsenale nucleare e la sua potenza tecnologica, e quella europea. Avamposto in terra nemica.

Putin ne è perfettamente consapevole e lavora per dividere le due sponde dell’Atlantico. Come spiegare altrimenti la richiesta di bloccare ad est l’espansione dell’alleanza? Limitare quella presenza significa solo avere la possibilità di interferire sugli sviluppi politici di quelle che sono, a tutti gli effetti, terre di mezzo. Fino a calpestare diritti fondamentali, quali le libertà politiche e civili. Ieri in nome dei principi della rivoluzione proletaria, oggi come semplice espressione di una volontà imperialista, che si nasconde sotto una presunta aggressività della NATO. Ed il fatto che personaggi come Keith Kellogg, uomo di Trump oggi, per fortuna, ridimensionato, condivida quest’impostazione dimostra solo tutta la schizofrenia della politica estera americana.

Georgia Meloni, dal canto suo, non ha bisogno di inseguire le sirene del politicamente corretto. Vive immersa in quella realpolitik che nega in radice i principi di coloro che vorrebbero ancora esportare la democrazia, seppure nelle sue forme diverse. In passato non funzionò per l’Iraq o la Libia, difficile possa riguardare un Paese come gli Stati Uniti, il cui contributo alla storia europea, nel corso di ben due guerre mondiali, è stato così rilevante. Segno evidente di legami profondi che la contingenza del momento può solo appannare, ma non recidere definitivamente. Perché l’America non è Trump, né tanto meno JD Vance.

Il fascino poco discreto dell’autoritarismo, che Monti, con un pizzico di perfidia, attribuisce alla Premier, pertanto non c’entra. Non è quello il terreno che legittima le scelte compiute. C’è voluta molta pazienza, specie quando in Germania era Olaf Scholz a dare le carte. Ma oggi c’è Merz che non ha paura di andare contro corrente, fornendo a Zelensky le armi di cui ha bisogno. Non lo fa solo per la necessaria solidarietà nei confronti di chi ha subito una guerra così distruttiva. Ma nella consapevolezza che l’Ucraina è un avamposto di quell’Europa da difendere. Anche se Donald Trump avrà molto da ridire.

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