L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta
E’ la fiera annuale del capitalismo, quella di Davos, anche se a fare da protagonisti, ormai già da qualche anno, non sono più né le grandi imprese né le grandi banche d’affari, ma gli Stati. Sono diventati un prodotto da vendere sul mercato, un luogo dove investire per far soldi, e vengono presentati dai rispettivi leader usando tutte le tecniche del marketing.
Quest’anno sono emersi tre elementi di novità: la rinnovata competizione tra Nuova Delhi e Pechino nello scacchiere asiatico, in cui l’Elefante indiano cerca nuovamente un suo spazio geopolitico facendo ponte con Usa e Russia per contrastare l’espansionismo del Dragone cinese; il nuovo assetto europeo, con un ribilanciamento a favore di Parigi nell’asse franco tedesco; la profonda ed inusitata divisione dell’Occidente, con i difficili equilibri tra euro e dollaro ed ancor più all’interno dell’Eurozona.
La democrazia rappresenta a sua volta un elemento di incertezza: dalla inattesa elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Usa all’altrettanto inaspettato successo referendario della Brexit ed al successivo indebolimento del governo conservatore retto da Theresa May, fino all’exploit in Francia di Emmanuel Macron e del suo autonomo movimento politico En Marche ed al declino politico della Cancelliera tedesca Angela Merkel.
A Davos ci sono un po’ tutti: dai Paesi usciti vincitori dalla globalizzazione che non intendono cambiare paradigma ancorché sia squilibrato a quelli che sono usciti devastati dalla crisi finanziaria europea, come l’Italia. E l’edizione del World Economic Forum di quest’anno ne prende atto, intitolandosi con grande enfasi ed ottimismo: “Creating e shared future in a fragmented world”.
Anche il primo ministro indiano Narendra Modi, cui quest’anno è stato affidato il compito di inaugurare il meeting, ha usato il linguaggio pubblicitario, con due slogan accattivanti, il primo rivolto ai suoi cittadini ed il secondo al mercato. Ai primi ha dedicato il messaggio #PositiveIndia, per rassicurarli circa le ottime prospettive economiche del Paese e soprattutto per tranquillizzarli dopo le sue due principali riforme, quella monetaria e quella fiscale, che in questi ultimi anni hanno destabilizzato il mercato, come dimostra il crollo nell’afflusso di capitali dall’estero. Tutte le riforme, anche le migliori, sono come le gocce di inchiostro versate in una bottiglia d’acqua: prima di diluirsi completamente, assumono le forme più strane. A novembre 2016, Modi ordinò all’improvviso, come misura straordinaria per battere la corruzione e l’evasione fiscale, il bando dalla circolazione delle banconote da 500 e 1000 rupie, da versare obbligatoriamente sui conti bancari entro la fine dell’anno. I risultati sono stati consistenti, visto che sono stati aperti oltre 290 milioni di nuovo conti: l’India si muove a passi veloci verso la trasparenza anche nel sistema dei pagamenti. Modi ha poi unificato il sistema di tassazione, con una Good and Services Tax (GST), che ha sostituito 17 imposte statali e federali, ed i diversi regimi impositivi dei 29 Stati e dei 7 Territori in cui si articola la Confederazione indiana.
Questo fervore riformista di Modi è stato ampiamente apprezzato dal Fmi, che alla vigilia del meeting di Davos ha diffuso il nuovo Outlook in cui si rivedono finalmente al rialzo le prospettive di crescita dell’India, che erano invece andate calando, con il +6,7% del 2017 dopo il +7,1% del 2016. Per quest’anno si prevede un +7,4% e per il 2019 addirittura un +7,8%, superando la crescita Cina. Mentre quest’ultima tenderà, secondo le previsioni del Fmi, al 5,7% all’orizzonte del 2022, in questo stesso anno l’India arriverebbe all’8,1%. Il ritardo che l’India dovrà recuperare sulla Cina si è fatto è assai pesante, soprattutto nell’import nel settore della elettronica e delle nuove tecnologie: lo dimostrano le numerose misure protezionistiche adottate in questi mesi.
Non si vive di solo tessile, a prezzi stracciati. Il secondo slogan usato da Modi, indirizzato stavolta al mercato, è stato “India means business”: il suo Paese, che ha ancora al suo interno differenze sociali ed economiche enormi, incarna gli obiettivi della nuova globalizzazione, quel futuro condiviso che dovrebbe finalmente sostituire un presente assai frammentato.
Gli interventi del Presidente francese Emmanuel Macron, presente al meeting per la prima volta, e della Cancelliera Angela Merkel che era alla sua decima partecipazione, sono stati sintomatici del tramonto politico di quest’ultima e del baluginare del nuovo astro francese. Anche Macron è andato avanti a colpi di slogan: con un banale “Choose France” rivolto agli operatori economici e finanziari, ed un assai più roboante “La France est de retour” con cui ha sottolineato il suo nuolo nel definire un nuovo “contratto mondiale a fronte di una globalizzazione che tira verso il basso”.
La Cancelliera Merkel si è dovuta limitare alla difensiva: la libertà dei mercati, che ha visto l’export tedesco dominare il commercio mondiale soprattutto grazie ad una moneta unica resa debole dalla presenza di tanti Paesi europei in grave difficoltà economica e finanziaria, non va messa in discussione. Il vero nemico da combattere, il vero pericolo per la pace, è invece rappresentato dal protezionismo economico americano, incarnato stavolta da Donald Trump che avrebbe dimenticato le disastrose conseguenze che derivarono da quelle iniziative statunitensi assunte nei primi anni Trenta del Novecento.
Sullo sfondo, c’è il timore generalizzato per le conseguenze della politica economica americana: la riforma fiscale sarebbe stata effettuata in dumping, perché il ciclopico maggior deficit che ne deriverebbe, un po’ meno di 1.500 miliardi di dollari in dieci anni, indebolirebbe in modo scorretto la valuta statunitense favorendo così il riequilibrio della bilancia commerciale americana. Questa prospettiva, insieme a quella che deriverebbe rispetto alla Gran Bretagna da una Hard Brexit, sarebbe catastrofica per la Germania, in cui la prosperità e la piena occupazione derivano dal mantenimento di un saldo commerciale estero strutturalmente attivo.
Il tema del riequilibrio nella globalizzazione, secondo Donald Trump, passa attraverso accordi bilaterali: il TPP negoziato da Barack Obama e per il quale ha immediatamente ritirato l’adesione, sarebbe stato un disastro per l’America, come lo è il Nafta che va assolutamente rinegoziato: l’alternativa è il recesso americano.
Anche il presidente americano Donald Trump, che ha concluso i lavori del meeting, ha sottolineato le enormi opportunità che ora ci sono per investire negli Usa. Dopo la sua elezione, tutti i parametri di crescita, fiducia ed occupazione sono migliorati, come mai da anni ed anni. Anche il numero degli occupati tra gli afroamericani e gli ispanici non è mai stato così elevato. L’America è tornata ad essere il posto migliore al mondo per fare business, soprattutto dopo la riforma fiscale appena approvata: dalle università fra le migliori alla abbondanza di fonti energetiche, fino alla recente eliminazione delle normative burocratiche obsolete. Oltre al rientro dei capitali detenuti all’estero dalle multinazionali, la riduzione della tassazione sulle imprese porterà a consistenti miglioramenti salariali. Il sogno americano, la ricerca della felicità, il benessere, la libertà dalla paura e dal bisogno sono così tornati prepotentemente alla ribalta. E così, ad un milione ed ottocentomila dreamers, i minorenni entrati senza permesso, verrà garantita la cittadinanza.
America First non significa America Alone, secondo Trump, ma fiducia in un sistema di commercio internazionale libero ma equilibrato, con una visione condivisa tra tutti i Paesi per una sempre più diffusa prosperità globale.
A Davos, simbolo del cinismo dei mercati, è tornata la seduzione della politica, quella che parla ancora di un futuro migliore: ad ognuno, ancora una volta, il suo mestiere.
Guido Salerno Aletta