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Shujun Wang

Tutti i dettagli sulla guerra (non solo commerciale) fra Cina e Stati Uniti

Alla fine del 2017, l’amministrazione Trump aveva fatto capire (attraverso le solite spifferate ai giornali) che quest’anno – il 2018 – avrebbe segnato l’inizio del nuovo atteggiamento americano nei confronti della Cina.

LA VISIONE DI TRUMP

Il presidente Donald Trump ha da sempre una visione piuttosto ostile nei confronti del Dragone, perseguendo un obiettivo puramente America First, la tutela dei rapporti commerciali. Gli Stati Uniti soffrono uno sbilancio enorme nei confronti della Cina, esportano oltre 300miliardi di dollari in meno rispetto a quelli che importano, e secondo l’ottica di Trump questo non è altro che un elemento che toglie lavoro, e benessere, agli americani. Nella National Security Strategy che il presidente ha inusualmente presentato qualche settimana fa, c’è un riferimento evidente alla questione: il termine “prosperità” è una parola chiave, la prosperità americana che le “potenze rivali” come la Cina (messo nero su bianco con questa definizione per la prima volta nella storia) stanno intaccando. Ma, nonostante le dichiarazioni propagandistiche e i programmi strategici, il 2017 si è chiuso con un saldo record per quel deficit commerciale e con un Trump di fatto quasi indebolito davanti alla crescita di Pechino.

LA GUERRA COMMERCIALE

La questione commerciale è indubbiamente un elemento centrale: Washington minaccia di alzare dazi sulle importazioni, e ha già realizzato i propri intenti sul settore del fotovoltaico; dove, per altro, i primi interventi erano stati messi in atto nel 2012 dall’amministrazione Obama. Prossimi obiettivi saranno le vendite dell’alluminio e dell’acciaio, e dei tubi in ferro, tutti finiti sotto l’accusa del dumping, il procedimento illegale (secondo il Wto) con cui dei beni vengono venduti all’estero con prezzi minori di quelli del mercato interno. Poi ci saranno le azioni contro il furto di proprietà intellettuale, a cui si abbinano i ripetuti avvisi sulle pratiche di spionaggio industriale, anche facilitate dal cyber warfare. Compagnie di telefonia come la Huaweii sono finite sotto la lente delle intelligence e oggetto delle attenzioni dei congressisti perché considerate una porta con cui le aziende americane aprono i propri segreti agli hacker cinesi, che poi li rigirano ai collettori di informazioni nell’ambito del continuo rastrellamento a ventaglio. Qualche giorno fa, il capo dell’Fbi, in audizione al Senato, spiegava che la dimensione delle pratiche illegali con cui la Cina sta spingendo la propria economia (e dunque creando quel gap commerciale) è enorme.

OCCHIO AL SOFT POWER

All’Fbi fanno eco altre agenzie dei servizi segreti, che iniziano a mettere in guardia pubblicamente: Pechino sta usando tutti i mezzi a sua disposizione per scansare gli Stati Uniti dal loro ruolo nel mondo. E lo sta facendo anche attraverso il soft power, dicono: per esempio quello con cui si diffonde all’interno dei campus universitari e nei centri di ricerca. Ora il punto è che questa consapevolezza sta raggiungendo una dimensione superiore alle urla da campagne elettorale America First di Trump, e si sta spostando verso un sentimento bipartisan. E dunque, gli Stati Uniti, nel 2018, inizieranno a considerare la Cina non più come una realtà emergente, ma come una potenza rivale con cui confrontarsi sotto tutti i campi. Conseguenza logica: Pechino non starà a guardare, se lo scontro commerciale dovesse trasformarsi in guerra, ha già annunciato le carte per colpire, mettendo direttamente le esportazioni in Cina dell’automotive americano sotto attacco di contro-dazi; un colpo per un presidente che in Michigan ha stretto la mano agli operai del settore che si sentivano traditi dall’amministrazione precedente (colpevole, nella narrativa trumpiana, di essere stata troppo morbida e aperta anche nei confronti delle Cina).

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