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Trump Silicon Valley

Donald Trump è reaganiano o keynesiano?

L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta In America si torna all’antico, alle politiche keynesiane. Il fallimento del monetarismo è sotto gli occhi di tutti, così come i danni di una globalizzazione selvaggia: anche gli americani, che per anni hanno sostenuto le virtù taumaturgiche del libero commercio e della politica dell’offerta, stanno cambiando rotta. Può essere simpatico…

In America si torna all’antico, alle politiche keynesiane.

Il fallimento del monetarismo è sotto gli occhi di tutti, così come i danni di una globalizzazione selvaggia: anche gli americani, che per anni hanno sostenuto le virtù taumaturgiche del libero commercio e della politica dell’offerta, stanno cambiando rotta.

Può essere simpatico o meno, si può condividere o meno il suo modo di fare, brusco e diretto, ma è indubitabile che Donald Trump sta adottando una politica economica estremamente diversa rispetto a quella degli ultimi anni.

elezioni USaIl punto cruciale è uno solo: in America non ci sono riforme strutturali da fare, quelle di cui tanto si parla in Italia per rendere più agevole e competitiva la produzione.

Il turbo-liberismo ha sfiancato ed indebolito l’America.

Primo: il mercato del lavoro è già completamente liberalizzato, visto che non ci sono contratti collettivi da rispettare. Esiste solo un minimo salariale orario che a livello federale è fermo dal 1991 a 7,25 dollari. Sono salve le integrazioni disposte dai singoli Stati come la California che lo ha portato a 10,50$ e la Florida a 8,25$. In Germania, per fare un confronto, dal 2017 il salario minimo orario è di 8,84 euro.

Secondo: gli oneri della Social Security sono già bassissimi, complessivamente pari al 12,4% del salario, di cui al dipendente viene trattenuta la metà in busta paga, mentre i lavoratori autonomi pagano direttamente loro la medesima aliquota. Niente a che vedere con i livelli europei ed italiani in particolare. Nel caso dei lavoratori dipendenti, l’aliquota media da versare all’INPS da parte ditta (salvi ulteriori sgravi ed agevolazioni) è pari al 32,70% della retribuzione lorda. La quota a carico del dipendente è normalmente pari al 9,19% della retribuzione. Il carico contributivo complessivo negli Usa è quindi quasi un terzo di quello italiano.

Terzo: l’assistenza sanitaria pubblica non esiste. A partire dal 2018 è stata eliminata anche la multa prevista dall’Obamacare a carico di coloro che non sottoscrivono una assicurazione malattia: in pratica, si è liberi di non rispettare l’obbligo di assicurarsi, perché non c’è più sanzione. Inoltre, negli scorsi anni l’assistenza sanitaria pubblica è stata ridimensionata in considerazione dell’obbligo generalizzato di sottoscrivere una polizza assicurativa.

Nonostante tutto ciò, il risparmio delle famiglie americane è molto basso, mentre stanno aumentando nuovamente i livelli di indebitamento.

Secondo i dati pubblicati a settembre scorso, il 57% delle famiglie americane ha meno di 1.000$ sul conto in banca. Il 39% delle famiglie non ha neppure un dollaro da parte.

In America, nonostante la crisi, il costo della vita è cresciuto del 30% negli ultimi 13 anni, mentre i salari nominali sono cresciuti solo del 28%. Di conseguenza, è aumentato l’uso delle carte di credito per gli acquisti correnti: la media del debito contratto dalle famiglie americane con le carte di credito è di 16.883$, quella per il finanziamento dell’acquisto di un automobile è di oltre 29.000$, mentre i debiti degli studenti per pagarsi la retta al college o all’università arrivano in media a 50.626$.

Basta leggere questi dati per capire lo stato di frustrazione di gran parte degli americani. La povertà è diffusa, molto più di quanto non si creda: a febbraio scorso, ben 42 milioni di persone hanno usufruito dell’assistenza alimentare (SNAP Supplemental Nutritional Assistance Program), con un contributo medio mensile di 125$ ed un costo totale di 68 miliardi di dollari. Certo, le cose vanno meglio rispetto al picco del 2013, quando gli assistiti furono 46 milioni e 600 mila, ma stiamo parlando del 13% della popolazione. In Italia, per fare un confronto, si è calcolato che nel 2016 i “poveri assoluti” fossero 4,7 milioni (7,8% della popolazione), un numero triplicatosi in dieci anni per via della crisi: le politiche di austerità, volte ad abbattere il costo del lavoro e favorire così la competitività del nostro sistema economico, hanno funzionato in modo tremendo, visto che oltre il 23% delle famiglie con più di tre figli si trova in condizioni di povertà. Anche se i criteri statistici per misurare la povertà sono diversi, in America la percentuali di poveri appare quasi doppia rispetto all’Italia: 13% della popolazione rispetto al 7,8%.

Il resto del mondo, da anni prospera sui debiti delle famiglie americane. Il protezionismo commerciale, tanto sottolineato da Trump sin dalla campagna elettorale, dipende da un deficit strutturale dei conti con l’estero che sta peggiorando in continuazione: nel 2017 è stato ancora una volta superiore ai 600 miliardi di dollari. E l’America ha una posizione finanziaria netta verso l’estero che a fine 2017 era passiva per 8 mila miliardi di dollari, rispetto ai mille miliardi del 2008.

La politica economica di Trump ribalta completamente i dogmi del monetarismo e della politica dell’offerta, tornando alla impostazione keynesiana, che si basa su tre principi:

A) ogni Paese deve avere i conti con l’estero equilibrati;
B) per aumentare il reddito bisogna aumentare i consumi, riducendo le tasse in deficit;
C) per aumentare l’occupazione servono investimenti infrastrutturali pubblici.
In concreto, la riforma fiscale approvata dal Congresso sul finire del 2017 riduce le tasse per le famiglie e le imprese americane, con un maggior deficit federale stimato in circa 1.000 miliardi di dollari in dieci anni. Ora, è stato annunciato un piano di investimenti pubblici infrastrutturali per un importo di 1.300 miliardi di dollari in dieci anni, di cui 200 miliardi a carico del bilancio federale, ed il resto finanziato dai singoli Stati e con prestiti direttamente sul mercato.

L’Europa e l’Italia sono ancora prigioniere dei dogmi del mercatismo, che serve solo alla Germania per accumulare enormi avanzi commerciali con l’estero, approfittando di un euro svalutato rispetto alle sue condizioni interne: esporta disoccupazione e deflazione. Ci troviamo nel paradosso di politiche monetarie estremamente accomodanti da parte della BCE e di politiche fiscali fortemente restrittive da parte degli Stati, per rispettare i vincoli del Fiscal Compact. In questo modo, ciò che si dà con una mano viene tolta con l’altra. Del tanto sbandierato Piano Juncker, che avrebbe dovuto mobilitare ingenti risorse private per finanziare investimenti infrastrutturali in Europa, non si è visto nulla.

La Spagna e la Francia crescono più dell’Italia, ma solo perché hanno un deficit pubblico più alto. L’Italia, che è soffocata da un debito pubblico elevato e da un saldo primario attivo che serve a pagare una quota degli interessi, cresce poco per questo, anche se ha un attivo commerciale costante. E la nuova stagione di riforme strutturali, che ci viene prospettata dopo le elezioni, non migliorerà certo la situazione.

Intanto, l’America cambia strada.

Pareggio commerciale, meno tasse ed investimenti in deficit.

Trump, il Keynesiano.

 

Articolo tratto da Teleborsa

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