Per quanto possa sembrare un facile cedimento a una certa retorica qualunquista, il giudizio sullo stato e, soprattutto, sulla qualità del dibattito sulle spese militari in Italia alla fine rimane uno solo: negativo. Un giudizio negativo che, inevitabilmente, si ripercuote poi sulla qualità stessa delle scelte (e delle non scelte) del nostro Paese in materia.
Senza voler infatti ripercorrere troppo a ritroso le varie tappe che contribuiscono a formare tale valutazione sarà sufficiente evidenziare 2 passaggi recenti. Il primo fa riferimento al piano ReArm Europe/Readines 2030, presentato dalla Presidente della Commissione Europa von der Leyen il 4 marzo scorso.
IL RIARMO EUROPEO
Come ormai noto ai più, tale piano poggia in particolare su 2 punti: l’attivazione della c.d. “Escape clause” (o “clausola di salvaguardia”) su base nazionale e la creazione di uno strumento di debito denominato SAFE. Attraverso l’attivazione della prima i Paesi membri che lo vorranno, potranno spendere fino all’1,5% del Pil in Difesa al di fuori dei vincoli definiti dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC) della Unione Europea (Ue) per un periodo di 4 anni. Di fatto, il loro scorporo da quello stesso Patto ai fini del calcolo del deficit, creando quindi un potenziale maggior spazio di spesa stimato in 650 miliardi di €.
Il secondo strumento vedrà invece la Commissione Europea impegnata a raccogliere fino a 150 miliardi di euro sui mercati dei capitali, a tassi di interesse che possono risultare vantaggiosi per alcuni (ma non tutti) i Paesi Europei; questi fondi saranno poi erogati su richiesta agli Stati membri interessati, sulla base di piani nazionali elaborati in coerenza con le priorità strategiche definite dall’Ue stessa e destinati soprattutto all’acquisto di armamenti “Made in Europe”. Una notevole accelerazione; non c’è dubbio. A fronte infatti di una Ue spesso accusata anche a ragione di traccheggiare in particolare proprio sui temi della Difesa, con questo piano (ovviamente perfettibile ma pur sempre figlio di una situazione di particolare emergenza) si forniscono comunque le prime risposte.
LA REAZIONE DEL GOVERNO
Risposte che peraltro sono perfettamente in linea con quelle che erano state le domande del nostro stesso Paese. Fin dal suoi primissimi giorni di vita nell’ottobre 2022 infatti, il Governo Meloni aveva messo in chiaro la propria posizione; l’Italia era sì disposta ad aumentare le proprie spese militari, al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti in sede Nato. Tuttavia, visti i propri ristretti margini di bilancio, quell’impegno non lo si sarebbe potuto rispettare se non a fronte proprio di uno scorporo di tali spese dal PSC.
In tal senso e a più riprese, si erano espressi il Presidente del Consiglio medesimo, il Ministro della Difesa (in particolare), così come quello degli Esteri e perfino dell’Economia e delle Finanze. Una presa di posizione forte, perfino coraggiosa; perché in contrasto con quelle che erano le opinioni di molti altri Paesi Europei, compresi tutti quelli più importanti.
Grande dunque è stata la sorpresa (e lo sconcerto) nell’osservare la reazione del Governo e dei partiti che lo sostengono; quegli stessi partiti che nel programma elettorale del 2022 si assumevano l’impegno di intervenire sul bilancio della Difesa, proprio al fine di adeguarlo agli “standard internazionali”. A parte infatti poche voci di approvazione, il resto delle posizioni espresse hanno spaziato tra la presa di distanza e la critica feroce. Sorpresa che aumenta a fronte delle disponibilità di un ulteriore strumento come il SAFE, anch’esso potenzialmente vantaggioso per il nostro Paese.
Al netto della ovvia considerazione circa il legittimo diritto alla critica, resta il fatto che dopo aver ottenuto ciò che chiedeva, in un clamoroso dietro front il Governo sembra ora invece orientato a non usufruire né della “Escape clause” né di SAFE. Sembra, perché in realtà la sua posizione resta a dir poco opaca, se non confusa; lasciando dunque aperto il tema di come aumentare le proprie spese militari. Ammesso che ci sia poi una reale volontà in tal senso.
I “TRUCCHI” DI BILANCIO
Dubbio più che legittimo a fonte della comparsa del secondo passaggio. Già circolate nelle settimane passate, negli ultimi giorni sono infatti riemerse voci secondo le quali sempre il Governo in carica starebbe valutando un modo a dir poco “originale” per ottenere il suddetto aumento. Al centro di queste indiscrezioni, l’ipotesi di includere in maniera “creativa” tutta una serie di capitoli di spesa; alcuni dei quali, peraltro, di poco conto e spesso addirittura già inclusi nei conteggi sulla spesa militare così come calcolata secondo gli specifici criteri Nato.
Ma non è tutto; perché nell’ambito di questa operazione sarebbe stata manifestata anche la volontà di includere in tale conteggio anche le risorse destinate all’Arma dei Carabinieri, alla Guardia di Finanza e alla Guardia Costiera. Qui occorre fare subito chiarezza, nel senso che in effetti l’Arma dei Carabinieri è una Forza Armata, la Guardia di Finanza è un corpo a ordinamento militare mentre la Guardia Costiera è a propria volta uno dei corpi che costituiscono la Marina Militare; inoltre, per tutti sono in effetti previsti dei compiti per l’appunto militari in supporto alle Forze Armate (comunque, soprattutto in caso di guerra).
All’apparenza dunque, si potrebbe anche pensare che una simile mossa riesca ad avere perfino un senso. Se non fosse per il fondamentale aspetto che se da una parte la Nato ammette l’inclusione della propria classificazione di spese militari anche i fondi destinati ad altri corpi, dall’altra specifica in maniera netta che questo può avvenire: «…solo in proporzione alle forze addestrate alle tattiche militari, equipaggiate come una forza militare, in grado di operare sotto l’autorità militare diretta nelle operazioni di dispiegamento e che possono, realisticamente, essere dispiegate al di fuori del territorio nazionale a sostegno di una forza militare.» Una facoltà che il nostro Paese peraltro ha già fatto propria, dato che nei propri calcoli include: «La quota parte afferente al personale dell’Arma dei Carabinieri impiegabile presso i Teatri Operativi del Fuori Area, fissata in complessive 8.600 unità». Una quota parte già piuttosto “generosa”, che se poi dovesse addirittura ampliarsi coinvolgendo tutta o comunque un numero maggiore di militari dell’Arma stessa e finanche quelli della Guardia di Finanza e Costiera finirebbe con il non rispettare di certo i criteri stabili dalla Nato.
Dunque, una sorta di “trucco”; già discutibile in sé e ancora di più discutibile se si pensa alle motivazioni che ne sarebbero alla base. Ovvero, presentarsi all’annuale vertice dell’Alleanza del 24 e 25 giugno prossimi a L’Aia con il risultato di aver raggiunto il “famoso” 2% del rapporto tra spese per la Difesa e Pil; parametro fissato nel 2014 e mai nemmeno avvicinato dal nostro Paese.
Un 2% che però possiamo già oggi considerare superato; tutto lascia intendere infatti che, tra le necessità oggettive di riarmo e le pressioni del Presidente USA, il nuovo obiettivo a partire da giugno sarà portato al 3,5%. Ovvero, più del doppio degli attuali livelli di spesa (probabilmente già “truccati”, sicuramente già opachi) del nostro Paese che oggi viaggia poco sotto l’1,6%.
QUALI PROSPETTIVE
Quello che emerge dunque per l’Italia è un quadro assolutamente sconfortante. Il quadro cioè di un Paese che, al pari degli altri del nostro continente, si trova di fonte a un incrocio della storia come se non se ne vedevano da tempo; stretti come siamo dal ritorno della guerra in Europa, dalla minaccia Russa in primo luogo ma anche da altre di diverso tipo e, infine, dalla svolta impressa dal ritorno di Trump alla Casa Bianca.
L’Europa, e con essa l’Italia, hanno cioè l’obbligo tassativo di tornare (dopo il lungo “sonno strategico” seguito alla fine della Guerra Fredda) ad affrontare tanto con lucidità quanto con serietà i temi della sicurezza. Sennonché, è altrettanto evidente che se nel nostro Continente (al netto dei limiti e delle differenze ancora esistenti fra i vari Paesi), la necessità di questa svolta è stata compresa, in Italia non è così. Con il nostro Paese complessivamente incapace di comprendere i profondi cambiamenti in atto e le loro conseguenze, con una politica che (tranne rare eccezioni) rimane divisa, priva di una reale visione strategica, incapace di guardare nonché di programmare il futuro in quanto fin troppo assorbita da piccole questioni quotidiane e ossessionata dai sondaggi elettorali, visceralmente lontana dal concetto di cultura della Difesa, cronicamente incapace di assumersi delle responsabilità.
Elementi che finiscono con il riflettersi, in maniera inevitabile, su tutto il resto del Paese; dai mezzi di (presunta) informazione all’opinione pubblica. Con quest’ultima che, in particolare, proprio la guerra in Ucraina ci ha fatto scoprire estremamente fragile e permeabile a certe narrazioni.
Insomma, il nostro Paese con il suo rifiuto ad accettare una realtà che è cambiata e, quindi, con la conseguente necessità di aumentare anche il proprio sforzo sul fronte delle spese per la Difesa, si sta ormai affermando come un’autentica anomalia nel panorama Europeo; con una significativa maggioranza di persone ciecamente (ovvero irrazionalmente) contrarie a un loro aumento.
Una situazione non del tutto sorprendente, in realtà, per chi segue queste vicende da tempo; ciò non di meno, essa risulta comunque sconfortante. Anche, se non soprattutto, per la totale assenza di segnali di cambiamento; ovvero di presa di coscienza del fatto che, continuando di questo passo, il nostro Paese corre il serio rischio di essere relegato in una posizione di secondo piano nei futuri assetti Europei in particolare, oltre che a dover dipendere da altri per la propria sicurezza.