Difesa, sicurezza dei confini, interesse nazionale. L’Europa, dopo decenni di pace, garantita dal peso della superpotenza statunitense torna a praticare il lessico della pace armata. Il conflitto in Ucraina, a solo pochi km dal continente europeo, insieme a un mutato equilibrio degli interessi statunitensi sta costringendo i 27 della “Vecchia Europa” a rispolverare l’adagio latino “Si vis pacem, para bellum”. Le nuove sfide si intrecciano a sovrappongono alle vecchie. Il Piano Mattei è uno dei progetti più ambiziosi avanzati dal governo presieduto da Giorgia Meloni. Un progetto che inverte la logica delle politiche di contrasto all’immigrazione e che sta riuscendo a superare le iniziali incertezze in sede europea.
Di tutto questo ne abbiamo parlato con il senatore Roberto Menia (FdI), Vicepresidente della III Commissione Affari esteri e Difesa.
Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Costa d’Avorio, Mozambico, Repubblica del Congo, Etiopia e Kenya sono i paesi identificati come prioritari per il Piano Mattei. Quali sono i risultati più importanti sin qui ottenuti? E quali saranno i primi passi in Angola, Ghana, Mauritania, Tanzania e Senegal?
Il Piano Mattei è una delle sfide più affascinanti che ha lanciato il governo Meloni. Si tratta di avere un rapporto diverso con l’Africa. L’Africa non è soltanto una fonte di problemi o la fonte di immigrazione che preoccupa noi e tutta l’Europa ma è un continente di grandi potenzialità, che ha una proiezione demografica enorme. Perciò noi abbiamo un doppio impegno e un doppio interesse: dobbiamo far crescere quel continente creando le condizioni affinché esista futuro per chi ci nasce e, dall’altra parte, la sfida italiana è di non avere un approccio predatorio, che è proprio quello che è stato rimproverato e che è storicamente è avvenuto con le potenze europee, certo molto meno per noi rispetto ad altri. Abbiamo avviato la collaborazione con diversi paesi africani, attraverso grandi progetti di sviluppo che riguardano le infrastrutture, lo sviluppo, l’agricoltura, la costruzione delle città, il rispetto dell’ambiente e gli scambi con le fonti energetiche. Tutto questo è stato apprezzato soprattutto dai paesi africani. L’approccio non predatorio da parte italiana è stato apprezzato e questa non è solo propaganda, ci sono progetti già partiti e che stanno diventando concretezza.
Uno degli obiettivi del piano è invertire la logica relativa ai flussi migratori, provando ad anticiparli e governarli. Quale può essere il ruolo dell’Ue immaginando un’azione coordinata?
L’UE ha compreso questo sforzo italiano. All’inizio c’era chi ci guardava con molto sospetto, ritenendo che gridassimo “al lupo, al lupo” mentre le cose andavano in maniera diversa. Adesso assistiamo a gravi problemi, in diversi paesi europei, in materia di integrazione. Penso alla Francia, all’Inghilterra e Germania che si registrano in queste settimane, tanto più con elementi di prima, seconda e terza generazione cioè persone nate lì e integrate. Tutto questo in un’Europa in cui la natalità è sostanzialmente sottozero. L’Italia, purtroppo, sotto questo profilo è capofila. Noi ci poniamo il problema dell’identità europea, che esiste e anche su questo l’UE ha ragionato spesso. Dobbiamo guardare le cose con pragmatismo e intelligenza e questo non sempre è avvenuto. C’è chi ha preferito un approccio ideologico, accusando di razzismo post-litteram chi diceva che l’immigrazione va governata, dall’altra parte c’era invece il mito dell’integrazione a tutti i costi. Ora il pragmatismo con cui l’Italia ha affrontato questa vicenda vengono imitati da altri paesi europei e la stessa Europa oggi ci sta ragionando. Questo penso sia un obiettivo raggiunto dal governo italiano e tanti altri dovremo raggiungerne d’intesa, com’è ovvio, con l’Ue.
Restando in tema di politiche migratorie il protocollo Italia-Albania ha vissuto fasi di stop and go. A che punto siamo ora? E, fino a che punto è un modello esportabile?
Le prime critiche al piano Italia – Albania sono state smentite dall’apprezzamento ricevuto dai nostri partner europei. Abbiamo trovato un’impostazione ideologica di certa magistratura in Italia, che ha fatto sì che quei centri già costruiti non potessero ospitare coloro per i quali erano stati costruiti. Il Governo, giustamente, ha riaffermato il diritto di decidere politicamente, perché il Governo dà l’indirizzo e il Parlamento fa le leggi, i giudici devono applicare le leggi, non disapplicarle sulla base di motivazioni ideologiche. La sentenza della Cassazione ha fatto chiarezza e quindi il protocollo con l’Albania ora parte.
È di questi giorni la notizia che il 2024 è stato l’anno con minor numero di sbarchi e di migranti irregolari. Per quanto riguarda il protocollo con l’Albania è evidente il messaggio che arriverà a coloro che gestiscono le rotte dell’immigrazione irregolare. Chi parte per venire in Europa scoprirà che finirà in un paese che non è l’Europa e sarà costretto a ritornare a casa. Otterremo un effetto di deterrenza enorme per quei viaggi della speranza che vengono, tra l’altro, profumatamente pagati. Questo è il motivo per cui questa proposta italiana sta diventando un modello anche in Europa.
Il presidente eletto Trump, in una dichiarazione non ufficiale, ha suggerito che tutti i paesi Nato dovrebbero portare la spesa per la difesa al 5%. L’Italia oggi è all’1,5% del pil in spesa militare, e questo grazie a un aumento pesante del 7% in questa manovra di bilancio. Cosa può fare, concretamente, il nostro paese?
Il nostro paese fa parte di un’alleanza ed è chiaro che in un’alleanza le cose si costruiscono insieme. Oggi la guerra è diventato un argomento anche in casa nostra. Dopo decenni in cui le giovani generazioni non avevano conosciuto altro che la pace, in cui avevano visto le guerre come qualcosa di locale o di molto lontano. È del tutto evidente che non esiste una pace disarmata, ci sono degli obblighi e dei dati di fatto che ci portano a fare delle scelte impegnative come destinare più fondi alla difesa. Il 5% di cui parla Trump è una cosa molto lontana, per quanto ci riguarda, e, com’è ovvio, all’interno di un’alleanza le decisioni sono coordinate. La risposta finale è quindi “sì, è giusto aumentare le spese della difesa ed è giusto farlo in maniera congrua”. Perché l’Italia è impegnata all’interno di un’alleanza che è politica, militare e democratica ed è giusto che avvenga. Lo facciamo, ovviamente, cum grano salis.
Si è da poco, e con successo, conclusa la vicenda Sala-Abedini. Cosa ci dice delle relazioni tra Italia e Usa?
Devo dire che Giorgia Meloni è stata capacissima di costruire relazioni con gli Stati Uniti a prescindere da chi fosse alla guida. Questo è avvenuto sia con Biden e con Trump. La missione di Meloni negli USA aveva l’obiettivo di concretizzare un’ambizione: liberare una nostra connazionale. Quando si parla di interesse nazionale, il primo è riportare a casa i nostri connazionali, vale per Cecilia Sala, valeva, ai tempi, per i Marò, sebbene qualcuno lo mettesse in discussione. Quindi l’Italia ha affermato quello che era il suo interesse nazionale, l’ha fatto conoscere anche agli USA, che erano in qualche modo controparte vista la vicenda di Abedini che era stato arrestato su richiesta degli USA. Il ministro Nordio poi ha fatto conoscere le ragioni giuridiche a seguito delle quali la vicenda si è conclusa. Penso si sia conclusa nel migliore dei modi e ha riaffermato come sono ottimi i rapporti tra USA e Italia.
La video intervista completa al sen. Roberto Menia (FdI), Vicepresidente della III Commissione Affari esteri e Difesa.