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Volkswagen, Bmw e Mercedes-Benz sfruttano il lavoro forzato in Cina?

Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz sono accusate di beneficiare del lavoro forzato degli uiguri dello Xinjiang, in Cina. Cosa dice l'indagine della Germania.

Su Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz grava una pesante accusa: quella di ricorrere o di essere complici del lavoro forzato degli uiguri della regione cinese dello Xinjiang. È questo il succo di un esposto presentato martedì alle autorità regolatorie tedesche chiamate a vigilare sul rispetto dei diritti umani da parte delle grandi Corporation del Paese nelle loro operazioni all’estero. Ecco la denuncia e i suoi particolari che imbarazzano i tre colossi dell’Automotive.

L’esposto

Le proteste contro i produttori tedeschi per la questione Xinjiang sono cominciate lo scorso maggio, quando, durante l’annuale assemblea dei soci di Volkswagen, un gruppo di attivisti pro uiguri hanno non solo, come ricorda Politico, brandito cartelli con la scritta “basta lavoro forzato nello Xinjiang”, ma hanno anche lanciato delle torte in direzione del tavolo della presidenza, costringendo il presidente Hans Dieter Pötsch ad abbandonare frettolosamente la sala.

Ma, come sottolinea Financial Times, il vero atto di accusa contro Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz è stato depositato martedì sotto la forma di un esposto alle autorità regolatorie tedesche chiamate a sorvegliare, in base alla nuova legge sulle catene produttive entrata in vigore a gennaio, sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente da parte delle grandi Corporation.

Presentata, evidenzia Reuters, dall’European Center for Constitutional and Human Rights, una organizzazione no-profit con sede a Berlino, la denuncia sostiene che le tre compagnie non sono sufficientemente trasparenti per quanto riguarda il ricorso a lavoro forzato presso i loro stabilimenti nello Xinjiang – ed è il caso di Volkswagen, che ha un impianto a Urumqi nell’ambito di una joint venture con il più grande produttore cinese di auto elettriche Saic Motors – o da parte dei loro fornitori cinesi.

Che cosa dicono gli attivisti

Il ricorso a lavoro forzato della popolazione uigura è solo una delle numerose violazioni dei diritti umani imputate a Pechino da parte non solo di una folta schiera di attivisti e ricercatori indipendenti, ma anche delle Nazioni Unite, del governo americano e di vari Parlamenti europei tra cui quello di Strasburgo. Secondo gli Usa, gli abusi commessi ai danni delle minoranze islamiche dello Xinjiang corrisponde a un vero e proprio “genocidio”.

Naturale in queste circostanze che ogni investimento effettuato da compagnie occidentali in quella regione attiri il sospetto di complicità, ossia proprio quello su cui fa leva l’esposto delle organizzazioni di Berlino.

“La sola presenza dell’impianto (VW) a Urumqi”, si legge nell’atto depositato martedì scorso, “è sufficiente per stabilire un’alta probabilità che la compagnia stia ricorrendo al lavoro forzato degli uiguri”. Se l’accusa contro Volkswagen è diretta, quella contro Mercedes-Benz e BMW è indiretta, essendo riferita alle loro relazioni con CATL, azienda cinese che produce circa un terzo di tutte le batterie elettriche del Paese e che l’anno scorso ha trasferito alcune delle sue produzioni nello Xinjiang.

Tutte e tre le compagnie tedesche, infine, sono accusate di approfittare dell’ampia disponibilità di materie prime come litio, alluminio e rame, che secondo gli attivisti sono ad “alto rischio” di lavoro forzato.

Quelli degli attivisti non sono solo sospetti, fa notare Politico, ricordando che alcuni giornalisti investigativi hanno comprovato il ricorso al lavoro forzato a meno di quindici miglia dall’impianto di Volkswagen.

“Vicino allo stabilimento ci sono sette campi di concentramento … ed è questo ciò che Volkswagen non può negare, anche se dicono di non avere alcun legame con essi”, sottolinea Erkin Zunun, coordinatore del World Uyghur Congress a Monaco. “Nessuno può dire al 100% che non ci sia collegamento con il lavoro forzato”.

Xinjiang. Basta la parola?

Anche al di là della specifica questione del lavoro forzato, ci sono questioni di opportunità che dovrebbero far desistere le grandi compagnie occidentali dall’effettuare investimenti in una regione che Xi Jinping ha cercato di domare con ogni mezzo, lecito e illecito.

Ed è probabilmente questo, ossia la copertura o peggio la legittimazione che si offre a politiche repressive senza precedenti da parte della Cina, l’assillo principale di organizzazioni come quelle uigure, preoccupate, oltre che della sorte dei loro connazionali, di togliere ogni alibi a un regime dispotico.

Colgono nel segno in tal senso le parole di un diplomatico occidentale intervistato da Politico, per il quale quello di Volkswagen con la Cina è un vero e proprio “patto col diavolo” siglato tempo fa: in cambio dell’accesso a un mercato come quello cinese che assicura loro grandi profitti e della possibilità di aprire liberamente una dozzina di stabilimenti in territorio cinese, Pechino le chiede di chiudere un occhio, se non di diventare complice, anche con un atto simbolico come l’apertura di un impianto nello Xinjiang.

Come denuncia l’attivista del World Uyghur Congress Eva Stocker, “anche se non ci fosse lavoro forzato”, impianti come quello di VW rappresentano “un poderoso simbolo per il governo cinese per mostrare al mondo che si porta prosperità nella regione”.

La difesa delle compagnie

La denuncia dell’European Center for Constitutional and Human Rights sarà ora passata al vaglio dell’Ufficio Federale per gli Affari Economici e il Controllo delle Esportazioni, che ha fatto sapere al Financial Times che si prenderà il tempo necessario. Bocche cucite frattanto ai quartier generali delle tre compagnie, con l’eccezione di una dichiarazione di VW di essere “fermamente contro il lavoro forzato” e di “assumersi molto seriamente la propria responsabilità sui diritti umani in tutte le regioni del mondo, inclusa la Cina”.

Volkswagen prende talmente sul serio le accuse da aver condotto già a febbraio – come riportarono al tempo Deutsche Welle e Bloomberg – un’ispezione effettuata personalmente dal capo delle operazioni cinesi Ralf Brandstätter nella quale, a detta dell’azienda, non furono trovate irregolarità.

Come riporta Politico, VW è intenzionata a rispettare i suoi obblighi contrattuali con il partner cinese Saic, che prevedono di mantenere aperto l’impianto di Urumqi almeno fino al 2030.

Bisognerà vedere ora se le pressioni degli attivisti e dell’opinione pubblica, e soprattutto quelle di una politica tedesca sempre meno incline a compromessi con Pechino, non la convinceranno a decidere altrimenti.

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