L’importanza dei grandi costruttori di aeromobili per i rispettivi sistemi economici di appartenenza è evidente dalle cifre in gioco. Dal 2000 al 2018, il valore della produzione consegnata è stimato per l’insieme dei due maggiori costruttori, Boeing e Airbus, appena inferiore a 1.500 miliardi di dollari. Il valore dei nuovi ordini, nello stesso arco di tempo, superiore a 2.000 miliardi di dollari. Una media di contribuzione alla formazione del reddito nazionale USA e UE di circa 40 miliardi di dollari per anno, oltre un quinto di punto di PIL per l’UE, circa un quinto per gli USA realizzato da due sole aziende.
Ai margini del ring in cui competono Airbus e Boeing resistono la canadese Bombardier, la brasiliana Embraer, la russa Sukhoi che limitano la loro produzione agli aeroplani fino a 100 posti. Da decenni oramai Cinesi e Giapponesi progettano di entrare in questa arena partendo proprio dagli aerei più piccoli dove fare i muscoli contro brasiliani, canadesi e russi.
Non deve sorprendere perciò che ogni qual volta si profilano minacce per una di queste imprese, i rispettivi governi intervengano con decisione. Gli interventi talvolta sono silenziosi e machiavellici, soprattutto quelli europei, talaltra gridati e violenti, soprattutto quelli dell’America trumpiana.
Nel 2000, a un quarto di secolo dall’avviamento del consorzio europeo Airbus, fatto 100 il totale degli aerei consegnati negli oltre vent’anni di convivenza dai due costruttori, le quote erano 25% per il francese, 75% per l’americano. Altri quindici anni e già nel 2015 Airbus aveva raggiunto il concorrente, che nel frattempo aveva assorbito, in coerenza con la volontà del governo USA, l’altro grande produttore nazionale, la McDonnell Douglas in grave crisi finanziaria.
La torta mondiale dei grandi aerei civili è oggi divisa tra Boeing e Airbus con quote 50/50 se si considerano le consegne per segmenti temporali di dieci anni. L’attenzione mediatica si concentra soprattutto sulle variazioni annuali enfatizzando scarti di poche unità nell’arco temporale dei dodici mesi, ma dal punto di vista strategico economico è più interessante rilevare il trend di lungo periodo e, senza dubbio, questo mostra la spettacolare crescita della franco-europea Airbus che, partendo da zero, in poco più di quarant’anni, un battito d’ali nel settore dell’aviation, ha pareggiato le dimensioni d’affari del concorrente Boeing.
Una simile performance, in un’industria che non ha pari in termini di fabbisogno di capitale, è impossibile senza il sostegno strutturale del proprio sistema politico di appartenenza. Spesa pubblica, politica estera, politica fiscale e industriale nazionale devono contemplare nella propria missione l’assistenza alla crescita dei campioni dell’aviation. E quando questi strumenti sembrano inefficaci, oppure, per il marketing politico, eccessivamente costosi per il consenso degli elettori, il ricorso all’arma della politica doganale è la via estrema, e disperata, cui possono ricorrere i governi.
E perciò non sorprendono i dazi minacciati dal presidente Trump in ritorsione delle politiche pubbliche di sostegno ad Airbus portate avanti dagli europei, francesi in primis, per sostenere lo sviluppo e l’affermazione del campione europeo nei decenni dal 1974 in avanti. Ci sarebbe da chiedersi se le ritorsioni doganali sono efficaci e chi, in caso, può davvero metterle in atto. E’ evidente che efficacia e credibilità dei dazi sono funzione delle dimensioni del mercato nazionale protetto. Gli USA, con una spesa per consumi stimata al 25% della spesa mondiale, sembrano efficaci e credibili nella loro minaccia di imporre dazi ai prodotti UE, eppure, a fronte della crescita portentosa delle economie asiatiche negli ultimi 20 anni, credibilità e efficacia appaiono in declino se confrontate con la situazione del secolo scorso.
(1.continua; la seconda parte si può leggere qui)