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Intermarine

Vi racconto la storia di Intermarine

Continuano a galleggiare, imperterriti, gli scafi di vetroresina della Intermarine, che magari faranno un pochino di ombra (ma non è detto) a Fincantieri. Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

In principio c’era la Max Meyer, la fabbrica di vernici del cavalier Leopoldo Varasi, ben noto a Milano anche per avere, come tanti padroni del secondo dopoguerra, il “braccino corto”; in ogni caso membro a pieno titolo della élite imprenditoriale.

Negli anni Ottanta il figlio Gianni intraprende con un certo successo una “carriera” confindustriale, scrive e pubblica un libro con prefazione di Giorgio Bocca – non piccolo segno di distinzione – e per un po’ bada sotto lo sguardo vigile del padre all’azienda di famiglia. A un certo punto entra nel giro dell’alta finanza.

Trova (o più probabilmente lo trovano) due “padrini” di alto bordo come Francesco Micheli e Sergio Cusani, già allora, benché giovani, “vecchie” volpi della finanza nostrana. Compra, e nessuno capisce perché, un cantiere navale mai sentito nominare, Intermarine: i giornalisti economici scoprono due nuovi termini: “materiali compositi” e “cacciamine” (fabbricate coi materiali compositi dalla sullodata Intermarine).

Nel frattempo Varasi compra il 10% della Montedison, che dopo l’epopea di Eugenio Cefis è in crisi di identità (e di azionisti). Passa il pacchetto a Intermarine che sembra afflitta da ingente liquidità e che in ogni caso – spiega – è stata un buon investimento perché l’industria degli armamenti ha un radioso futuro, previsione purtroppo confermata dai fatti.

Ma è solo il principio. Da Ravenna cala su Milano Raul Gardini, genero e successore del leggendario Serafino Ferruzzi, precipitato con il suo aereo in prossimità di Forlì, a due passi da casa, pochi anni prima: col 10% comprato da Varasi e le altre azioni raccolte sul mercato con la silente benedizione di Enrico Cuccia si siede sul trono di Foro Bonaparte. Cominciano gli anni dei maxi-yacht, di America’s Cup, i giornalisti scoprono dove si trova San Diego. I regnanti di Torino non nascondono un lieve fastidio.

La storia si conclude, come deve, con un botto molto rumoroso, la cui eco arriva fino in Grecia, dove Gardini aveva comprato la seconda società cementifera del paese con un’operazione piuttosto discussa. Ma dal punto di vista dei due protagonisti, Gardini e Varasi, dei tanti intermediari e dei giornalisti più o meno al séguito, se non si vuole essere bigotti ne è valsa la pena. E non solo dal loro punto di vista. In fondo sono stati i nostri modesti Roaring Twenties, i Grandi Gatsby da potenza economica di seconda fila e soprattutto non anglosassone: infatti sono finiti  nella universale (cattolica) penitenza di Mani Pulite.

Intanto avanzava con discrezione il rag. dott. H.C. Roberto Colaninno, ristrutturatore della Olivetti per conto di Carlo De Benedetti (che l’aveva comprata dal robivecchi) e poi in proprio. La usa per inventarsi la prima società telefonica cellulare privata (Omnitel) che ben presto vende. Visto che con i telefoni c’è del feeling, lancia la scalata alla Telecom, ne esce rapidamente, per asseriti screzi coi compagni di cordata, non prima di essersi assicurato il pacchetto di miliardi di ordinanza. Li investe, diventa padrone di tante cose, tra cui Intermarine. Ancora oggi ne è il padrone.

I due protagonisti sono morti. Dell’Olivetti si è perso perfino il marchio. Del Gruppo Ferruzzi sono rimasti alcuni eredi con la passione per i cavalli. La Max Meyer è finita in solide mani americane. Della Montedison rimane il palazzo milanese di Foro Bonaparte che qualcuno aveva sognato di trasformare in un hotel a cinque stelle, e i numerosi libri editi e inediti che a questa sfortunatissima grande impresa italiana sono stati dedicati, tra cui una sorta di poema epico composto da un grande giornalista d’altri tempi, ma anche addetto stampa della Montedison di Cefis, Vieri Poggiali. La Telecom (ora Tim) ricorda la Montedison degli anni Ottanta del secolo scorso: due gruppi industriali che in epoche diverse hanno fatto la storia dell’economia italiana ma che si tende a rimuovere dalla memoria collettiva. Forse perché è più facile pensare che la grande impresa non faccia parte del nostro DNA (“per non pagare il dazio” secondo un modo di dire milanese).

Continuano a galleggiare, imperterriti, gli scafi di vetroresina della Intermarine, che magari faranno un pochino di ombra (ma non è detto) al colosso della cantieristica italiana. Involontario simbolo della vendetta, dopo trent’anni di ebbrezza finanziaria e virtuale, dell’economia reale?

Senza trascurare che, come tutti i veri simboli, è anche un paradosso: di proprietà di Colaninno, uno dei più geniali “baroni” della economia della “carta contro carta”.

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