Il 19 aprile di due anni fa Stellantis, per mezzo di una nota stampa, comunicava al mondo di essersi lasciata dietro di sé i vasti territori della Federazione Russa: “In seguito al quotidiano rafforzamento delle molteplici sanzioni e alle difficoltà logistiche riscontrate, Stellantis ha sospeso la propria attività produttiva a Kaluga al fine di garantire il pieno rispetto di tutte le molteplici sanzioni e di tutelare i propri dipendenti. Stellantis – chiosava il comunicato stampa – condanna la violenza e sostiene qualsiasi azione che possa riportare la pace”.
La fuga dei principali marchi occidentali, da Stellantis a McDonald’s come pure Volkswagen, Ikea, Lego, Netflix, Toyota, Apple, American Express, Visa e Mastercard (solo per citare i più noti), peraltro particolarmente amati dai russi, pareva un duro colpo all’immagine di Vladimir Putin. Lo zar, però, mai come in questo caso ha saputo fare di necessità virtù. Almeno sulla carta.
IL PIANO DI PUTIN PER IL DOPO STELLANTIS
Esattamente due anni dopo, un’altra nota, questa volta della russa Automotive Technologies fa sapere al mondo intero che l’impianto abbandonato da Stellantis non è più vuoto ma prossimo a riaprire per lavorare a pieno regime. Gli operai russi dismetteranno le tute col logo Stellantis per assemblare la Citroën C5 Aircross. “Le auto – fanno sapere da Automotive Technologies – arriveranno nei saloni dei concessionari ufficiali Citroën a maggio 2024, ma è possibile prenotare un’auto già ad aprile”.
STELLANTIS FUGGITA O ESTROMESSA DALLA RUSSIA?
Già lo scorso anno, esattamente il 31 dicembre, Stellantis aveva affermato di “aver perso il controllo di tutte le sue entità russe”. Si è insomma verificato anche con il gruppo guidato da Carlos Tavares ciò che era accaduto, all’inizio del conflitto, con Renault che, coi suoi 45 mila dipendenti in Russia, era tra le aziende dell’automotive europeo più esposte verso Mosca. Spinta dal governo francese, la Losanga aveva dovuto abbandonare in tutta fretta la Russia.
IL PRECEDENTE DI RENAULT
Poco prima dell’abbandono delle fabbriche, però, il colpo di scena del Cremlino: costringere i francesi a cedere alla Russia attività dal valore di circa 2,2 miliardi di euro, secondo l’azienda d’Oltralpe, per una somma simbolica e irrisoria.
La totalità delle azioni di Renault Russia è stata così trasferita, obtorto collo, al governo della città di Mosca e l’istituto statale di ricerca nel Settore automobilistico (Nami) è diventato proprietario della partecipazione un tempo della Casa di Boulogne-Billancourt nella casa automobilistica russa Avtovaz.
In tal modo l’abbandono di Renault è stato, a tutti gli effetti, proprio quell’estromissione o cacciata vantata pubblicamente dal regime di Putin: con Stellantis non sembrano esserci stati accordi di natura economica, quindi quella dell’impianto di Kaluga sarebbe una vera e propria occupazione abusiva, insomma, senza giusto titolo. Ennesima dimostrazione che lo zar fa ciò che vuole.
PECHINO DEUS EX MACHINA
Non può però farlo da solo: non ne avrebbe né la forza, né le risorse. Ma ancora una volta in soccorso di Mosca è arrivato Pechino. Reuters già a inizio anno, citando dati delle dogane e altre fonti, aveva scoperto un traffico di kit di assemblaggio che lasciavano la cinese Dongfeng Motor per andare in Russia, direzione Kaluga.
L’operazione sembra win-win per la Russia e per Pechino: Putin può rimettere in piedi le proprie industrie e la sua economia, alleggerendo il tasso di disoccupazione e soprattutto aggirando i dazi occidentali, Xi Jinping permette alle aziende cinesi di colonizzare il mercato russo. Molti analisti concordano però nell’osservare che a lungo andare il solo vincitore sarà Pechino, che ormai può determinare da solo le sorti dell’economia russa. Quel che è certo è che la rapida sostituzione dei marchi occidentali con quelli cinesi ha sfavorito soprattutto brand europei e americani.
Il gruppo automobilistico guidato da Tavares ha infatti dovuto mettere mano al portafogli: la rocambolesca fuga dalla Russia è costata parecchio. A febbraio, Stellantis ha dichiarato di aver registrato una perdita di 144 milioni di euro, compresi 87 milioni di euro di liquidità ed equivalenti. Mai come in questo caso si può dire che tra i due litiganti la Cina goda.