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sottomarini virginia

Perché la Marina Usa sarà “conservatrice” nella componente subacquea

I sottomarini Virginia sono destinati a costituire la “spina dorsale” della componente subacquea della US Navy per diversi decenni a venire. L'articolo di Giovanni Martinelli

Gli ultimi giorni sono stati contrassegnati da una serie di eventi che hanno riguardato il programma dei sottomarini d’attacco a propulsione nucleare (o SSN, secondo la definizione adottata dagli USA) della classe Virginia; il 3 luglio scorso è stato infatti varato l’SSN-800 Arkansas mentre più o meno negli stessi giorni sono stati resi noti i documenti di bilancio per l’anno fiscale 2026, che prevedono ulteriori fondi per la sua prosecuzione.

Per dare un’idea delle dimensioni di questo stesso programma, si ricorda che l’Arkansas è la 27esima unità della classe Virginia mentre con i fondi per il prossimo anno fiscale sarà autorizzata la costruzione dei sottomarini numero 43 e 44. Ma non è finita qui, perché a oggi è previsto che questo stesso programma possa portare alla costruzione di almeno 66 sottomarini; se non oltre.

Dunque, i Virginia sono destinati a costituire la “spina dorsale” della componente subacquea della US Navy per diversi decenni a venire; anche, se non soprattutto, per la loro costante evoluzione. Sono infatti 6 le versioni in servizio/ in costruzione/in previsione; anche se già si parla di una settima. Dai primi battelli in versione Block I entrati in servizio all’inizio degli anni duemila all’attuale Block IV (cui appartiene lo stesso Arkansas) i progressi sono già notevoli. Questo mentre le 2 future Block V e VI saranno un qualcosa di ancora molto diverso.

Esse infatti incorporeranno una sezione di scafo di scafo aggiuntiva che permetterà a questi sottomarini di ospitare (oltre ai 12 già presenti) altri 28 tubi di lancio verticali per missili di vario tipo; dagli attuali Tomahawk fino a future armi ipersoniche. Oltre a varie altre innovazioni tecnologiche, soprattutto sul fronte dei sensori e su quello della “invisibilità” della piattaforma.

Dunque, i Virginia sono sicuramente tra i sottomarini più avanzati al mondo e ancora nel pieno della loro evoluzione. All’apparenza quindi, un programma di successo per la US Navy; incredibilmente, uno dei pochi per la Marina americana.

LE APPARENZE INGANNANO

In questo clima di complessiva soddisfazione, nubi sempre più dense si scorgono però all’orizzonte. A preoccupare, in particolare, è la questione dei costi; ma, anche, quella dei numeri complessivi. Mentre infatti un Virginia Block IV costa già sui 3 miliardi di dollari, cifra elevata ma sostanzialmente “abbordabile” per la US Navy, i futuri Block V e successivi vedranno schizzare il tale cifra su valori intorno ai 4,8 miliardi. Un aumento importante, che ora sì pone sotto stress il bilancio della Marina Americana stessa.

A pesare poi sono anche altri fattori. Intanto, negli Stati Uniti oggi esistono due soli cantieri capaci di realizzare battelli a propulsione nucleare (General Dynamics Electric Boat e  Newport News Shipbuilding del gruppo Huntington Ingalls Industries); e questi due cantieri sono già impegnati non solo nel programma Virginia ma anche in quello dei futuri sottomarini lanciamissili balistici della classe Columbia.

Ogni tentativo di incrementare perciò la produzione dei primi per abbassarne i costi si sta così dimostrando vano, proprio perché lo sforzo complessivo in atto sta già saturando le capacità produttive disponibili. Al punto da rendere sempre più difficile anche un più rapido ingresso in servizio dei Virginia stessi, da più parti auspicato al fine di raggiungere il livello previsto di 66 SSN previsto dai piani della Marina Americana (e che invece, a oggi, sono solo 50).

E complicare ulteriormente il quadro, il fatto che negli Stati Uniti si stia anche lavorando al programma SSN(X), destinato a trovare in prospettiva un sostituto proprio per i Virginia; ebbene, per quanto esso si trovi solo alle battute iniziali, le prime analisi (ufficiali e indipendenti) ipotizzano costi unitari per questi futuri sottomarini elevatissimi, fino anche a 8 miliardi dollari. Ancora una volta dunque il tema di costi (sempre più elevati) rimane centrale in ogni discussione sul futuro della componente subacquea della US Navy.

UN APPROCCIO ALTERNATIVO

Prima di entrare nel merito di tale approccio, un rapido cenno storico. La US Navy ha radiato il suo ultimo sottomarino a propulsione convenzionale (o diesel-elettrico o, ancora, SSK) nel 1990; da allora in poi, la scelta è stata quella di allestire una “all nuclear submarine force”. Scelta comprensibile per quei tempi; all’epoca infatti la propulsione nucleare garantiva enormi vantaggi nei confronti di quella convenzionale. E per un Paese come gli USA che si potevano permettere ingenti investimenti, la strada divenne perfino obbligata.

Nel frattempo però sono passati oltre 30 anni e la tecnologia ha fatto passi da gigante, in molti campi; al punto da rendere nuovamente attrattivo ciò che un tempo presentava troppi svantaggi. Eccoci dunque arrivati al cuore di una proposta che agita il dibattito tra gli analisti navali Americani ormai da diversi anni; rivedere la scelta effettuata negli anni ‘90 e introdurre nuovamente in servizio, per l’appunto, dei sottomarini a propulsione convenzionale.

Il ragionamento è tanto semplice quanto logico; queste ultime piattaforme, come appena accennato, hanno conosciuto un costante sviluppo tecnologico. L’innovazione più importante è stata l’arrivo dei sistemi cosiddetti AIP (Air Indipendent Propulsion); questi, più l’arrivo di nuove batterie molto più capaci, stanno parzialmente superando quella che era la più significativa limitazione dei battelli diesel-elettrici e cioè la ridotta autonomia.

Ma non è tutto; innovazioni si sono registrate anche nel campo dei sensori e dei sistemi di bordo, più performanti rispetto al passato e più in grado di adattarsi anche a piattaforme di dimensioni (relativamente) ridotte. E anche nel campo degli armamenti, gli stessi SSK sono oggi in grado di imbarcarne una vasta gamma; dai siluri (ovviamente) fino ai missili antinave e “land attack”, anche utilizzando configurazioni avanzate come i sistemi lancio verticali.

Infine, il grande vantaggio; i costi. Giusto per fare un esempio banale (anche al netto dei limiti in esso insiti), si evidenzia che i sottomarini diesel-elettrici più avanzati al mondo, e cioè quelli della classe Taigei in fase di ingresso in servizio nella Marina giapponese, hanno un costo stimato di circa 700 milioni di dollari. Dunque, davvero una frazione di un prossimo SSN della classe Virginia Block V. In questo modo, visti i costi più bassi, si potrebbero dunque realizzare più piattaforme al costo di un singolo Virginia; in modo da ampliare poi notevolmente la consistenza numerica della flotta subacquea della Marina americana.

Peraltro, i sostenitori di questo approccio hanno pensato a tutto. Per ovviare a quello che rimane il più grave difetto degli SSK, e cioè un’autonomia comunque ridotta rispetto agli SSN, ecco pronta la soluzione. Sfruttando la rete di basi Americane e Alleate presenti in tutto il mondo, sarebbe possibile schierare in maniera permanente questi sottomarini presso di esse. In pratica, Mediterraneo, Golfo Persico e l’Indo-Pacifico potrebbero facilmente diventare le loro aree di operazioni, senza alcun bisogno di lunghi spostamenti partendo dagli Stati Uniti.

UNA BUONA SOLUZIONE DUNQUE, TUTTAVIA…

Sembrerebbe di sì, anche perché nel conto non sono stati ancora messi altri 2 fattori. I battelli diesel-elettrici rispetto a quelli a propulsione nucleare non hanno più bassi solo i costi di acquisto ma anche quelli operativi/logistici; a questo si aggiunga che questi ultimi hanno anche quelli di smantellamento alla fine della loro vita operativa, anch’essi elevati,

E poi c’è il secondo fattore, direttamente sperimentato dalla US Navy stessa; e cioè l’impareggiabile silenziosità degli SSK. Nel corso di diverse esercitazioni è accaduto che sottomarini diesel-elettrici di varie Marine straniere siano riusciti a penetrare lo schermo difensivo delle navi di scorta Americane, riuscendo ad “affondare” quando delle portaerei, quando delle unità anfibie, quando un altro SSN (della classe Los Angeles). A dimostrazione di quanto possano essere letali simili battelli e di quanto sarebbe interessante per la US Navy, anche in chiave addestrativa per le proprie stesse unità, averne a disposizione.

Eppure, quasi incredibilmente, a Washington questa tema resta una sorta di tabù. Chiaro sintomo di una Marina troppo conservatrice, incapace di affrontare con le necessaria flessibilità le nuove sfide, troppo aggrappata a schemi precostituiti. Una scelta incomprensibile, anche alla luce del fatto che costituire una base industriale per realizzare sottomarini a propulsione convenzionale, rappresenterebbe poi un potenziale sbocco futuro anche per il mercato dell’export.

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