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Globalizzazione

Perché gli Usa bloccano migliaia di Porsche, Bentley e Audi alla frontiera?

Migliaia di Porsche, Bentley e Audi finiscono in mezzo alle tensioni tra Usa e Cina, sequestrate nei porti statunitensi dopo che un fornitore della capogruppo Volkswagen ha trovato componenti cinesi che violano le leggi contro il lavoro forzato

Negli ultimi decenni la geografia dell’automotive si è fatta parecchio complessa. Si fa presto a dire che un’auto è tedesca, o britannica, se i freni sono fatti in Italia, il cambio in Svezia e l’elettronica è sviluppata da una startup cinese. Negli ultimi due anni, però, la geopolitica mondiale si è fatta ancora più complessa, col mondo che sembra essere tornato a dividersi in blocchi contrapposti. Capita così che nonostante gli accordi commerciali di libero scambio siglati tra i Paesi occidentali alcuni beni, ovvero alcune migliaia di automobili, vengano bloccate alla frontiera perché montano a bordo piccole parti cinesi.

GLI USA SEQUESTRANO PORSCHE, AUDI E BENTLEY NEI PORTI

Una storia incredibile, che in parte ricorda il famoso ban di Huawei da parte dell’amministrazione Trump. Una storia venuta a galla sulle pagine del Financial Times che racconta di migliaia di vetture europee, tra cui le tedesche Porsche e Audi e la britannica Bentley, rimaste bloccate alla dogana, nei porti statunitensi, dopo che un fornitore della casa madre, ovvero il gruppo automobilistico Volkswagen (che com’è noto ha sempre fatto e continua a fare ottimi affari in Cina), ha trovato un sottocomponente nei veicoli vietato negli States in forza di una legge contro il lavoro forzato.

DA DOVE ARRIVA IL COMPONENTE DELLA DISCORDIA?

Presumibilmente, viene rumoreggiato, si tratta di un componente prodotto nella regione dello Xinjiang. Secondo il quotidiano, il gruppo tedesco dovrà sostituire in tutta fretta il componente elettronico per ottenere il dissequestro delle vetture, con un conseguente ritardo di svariate settimane sulla consegna.

Sebbene le fonti non abbiano confermato se il componente sia stato prodotto effettivamente nello Xinjiang, i quotidiani statunitensi (maliziosamente?) ricordano dell’esistenza di un impianto che Volkswagen detiene insieme al partner cinese Saic, a Urumqi, località già finita in più occasioni bersaglio delle critiche degli attivisti per i diritti umani per lo sfruttamento del lavoro forzato degli uiguri, minoranza musulmana nell’immenso Paese asiatico.

Da parte sua però VW nega, anzi, sebbene la risposta sembri ilare, pare proprio non essere a conoscenza dell’origine del componente, che giungerebbe da un fornitore indiretto più a valle della catena di approvvigionamento.
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