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Ordinanza Salvini sullo sciopero dei treni. Cosa va e cosa non va

Il ministro Salvini, la Commissione di garanzia e l’ordinanza che dimezza lo sciopero dei treni: perché i conti non tornano. L’analisi del professor Giuseppe Pellacani, ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

I miei figli ieri (13 luglio, ndr) dovevano spostarsi in treno. Appena ho appreso dell’ordinanza con cui il Ministro Salvini, dopo la riunione con i sindacati del 12 luglio, ha ordinato la riduzione della durata dello sciopero nel trasporto ferroviario, anticipandone il termine dalle ore 2 di venerdì 14 alle ore 15 di giovedì 13 luglio, ho quindi istintivamente provato un sospiro di sollievo. E, discorrendone al bar, ho avvertito un consenso pressochè unanime, espresso da frasi del tipo: hanno rotto con questi scioperi; lascino in pace la gente che lavora; ma pensa se si deve bloccare il paese a luglio; e così via.

Immediatamente dopo, però, da giurista del lavoro ho incominciato a farmi delle domande, alcune specifiche, altre più generali.

La prima riguarda la sussistenza dei presupposti legittimanti il provvedimento adottato dal MIT.

La legge (n. 146 del 1990) configura infatti l’ordinanza di precettazione come “extrema ratio”, una misura eccezionale da adottarsi “quando sussista il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati … che potrebbe essere cagionato dall’interruzione o dalla alterazione del funzionamento dei servizi pubblici … conseguente all’esercizio dello sciopero”. Ebbene: è stata effettuata una qualche istruttoria sull’effettivo impatto dell’astensione, idonea a giustificare la scelta della Commissione di garanzia di richiedere (e quella del MIT di assumere) il provvedimento in questione? Oppure, come le tempistiche sembrano suggerire, si è trattato di una decisione “a sentimento” (“impensabile lasciare a piedi un milione di pendolari in una giornata che prevedeva temperature intorno ai 35 gradi”, secondo la dichiarazione del Ministro)?

Proprio sulle tempistiche verte la seconda domanda: un’ordinanza di precettazione a 10 ore dall’inizio dello sciopero è legittima?

Un simile provvedimento, infatti, deve per legge essere adottato “non meno di quarantotto ore prima dell’inizio dell’astensione collettiva, salvo che sia ancora in corso il tentativo di conciliazione o vi siano ragioni di urgenza”.

Siccome il termine di quarantotto ore non è stato rispettato, si passa alla terza domanda: la riunione con i sindacati, convocati al MIT per il 12 luglio, può configurare quel “tentativo di conciliazione” che la legge richiede quale presupposto indispensabile di legittimità? La norma, al riguardo, prevede infatti una scansione temporale precisa: le autorità competenti (Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro, Prefetto o corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale) “invitano le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di pericolo, esperiscono un tentativo di conciliazione, da esaurire nel più breve tempo possibile, e se il tentativo non riesce, adottano con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”. Dinanzi ad uno sciopero proclamato il 21 giugno, viene da dire che i tempi per procedere ad un reale ed effettivo tentativo di composizione vi sarebbero stati e che per contro un incontro al Ministero nella giornata immediatamente precedente l’inizio dello sciopero assomiglia più ad una foglia di fico o ad un alibi precostituito.

Sarà dunque interessante leggere le motivazioni dell’ordinanza e quelle della pec inviata dalla Commissione di Garanzia al Ministero, per capire se siano tali da consentire (qui cito il Consiglio di Stato, sentenza n. 2116 del 2023) di “ricostruire nella sua interezza e completezza il corredo informativo che ha consentito di indirizzare la manifestazione di volontà” dei decisori.

La quarta, ed ultima, domanda specifica è la seguente: un’ordinanza a 10 ore dallo sciopero ha un senso? Consideriamo infatti che la legge 146 prevede espressamente (a fini antielusivi e cioè per impedire al sindacato di poter creare disagio a costo zero) che “la revoca spontanea dello sciopero proclamato, dopo che è stata data informazione all’utenza ai sensi del presente comma, costituisce forma sleale di azione sindacale”. Ciò, evidentemente, nella consapevolezza che già la proclamazione di per sé crea un disagio e un passo indietro all’ultimo secondo agli utenti serve a poco. Se così è, è chiaro che un’ordinanza last minute non può non suscitare qualche perplessità, quantomeno di opportunità e di coerenza logica.

Passo infine ad una considerazione di ordine più generale. Lo sciopero, nel disegno voluto dai costituenti, non si configura solo come un diritto circoscritto all’ambito del conflitto economico e sociale, ma anche, più in generale, come uno degli strumenti posti a presidio dei valori democratici e può subire limitazioni, ma non eccessive compressioni. In questa prospettiva è stata concepita la legge n. 146 del 1990 che, come da sempre osservano i migliori giuristi (da ultimo il compianto Giuseppe Santoro Passarelli) si pone l’obiettivo di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento degli altri diritti fondamentali della persona (alla vita, alla sicurezza, alla salute, alla libertà di circolazione eccetera). Il delicato equilibrio si realizza, in particolare, mediante il costante collegamento tra ordinamento statuale e ordinamento intersindacale e un complesso sistema di procedure, pesi e contrappesi attentamente calibrati. L’impressione è che tali meccanismi di salvaguardia, in questi giorni, siano stati presi un po’ alla leggera. Per la Commissione di garanzia appena insediata la partenza non pare delle più felici. Concludo quindi rubando le parole alla frase di un noto film e al titolo di un bell’articolo di Franco Carinci di qualche anno fa: “Provaci ancora Sam”.

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