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scandalo Daihatsu

L’arcipelago degli scandali dell’automotive? Dopo Hino e Takata tocca a Daihatsu

Dai test sulla sicurezza a quelli sulle emissioni. Nell'ultimo periodo sono stati numerosi gli scandali che hanno riguardato il mondo nipponico dell'auto. L'ultimo interessa la Casa più antica del Giappone: Daihatsu. Ecco tutti i dettagli

Quando si parla di auto piccole e affidabili, solitamente la mente corre alle vetture nipponiche. Nell’ultimo periodo, però, il Paese del Sol Levante ha inanellato una serie di scandali che rischiano di gettare un’ombra sull’intero comparto. L’ultimo riguarda nientemeno che il marchio più antico. Daihatsu ha difatti ammesso di aver “truccato” i test di oltre 88 mila veicoli, per la maggior parte prodotti per conto della casa madre Toyota.

COSA SAPPIAMO SULLO SCANDALO DAIHATSU

Secondo quanto si apprende, del campione sotto accusa, 76.289 sono Yaris assemblate nell’agosto del 2022 tra Thailandia e Malesia e vendute in Messico, Thailanda e nei mercati del Golfo Persico, mentre le restanti 11.834 sono di Perodua (i cui investitori sono UMW Corporation col 38%, Daihatsu Motor Co. col 20%, Daihatsu al 5%, MBM Resources al 20%, PNB Equity Resource Corporation al 10%, Mitsui & Co. al 4.2% e Mitsui & Co. al 2.8%). Lo scandalo riguarda difatti circa 12 mila Axia prodotte lo scorso febbraio in Malesia e commercializzate sempre nello stesso mercato malese.

In modo non dissimile all’affaire Hino, anche qui segnalazioni interne hanno fatto partire una inchiesta. Si è così scoperto che durante le prove, “il rivestimento interno della porta del sedile anteriore è stato modificato in modo improprio e vi è stata una violazione delle procedure e delle metodologie di verifica degli urti previste dalle normative”.

“Ci scusiamo profondamente per aver tradito la fiducia dei nostri clienti e delle altre parti interessate e per aver causato grandi disagi e preoccupazioni”, fanno sapere dalla sede dell’azienda a Ikeda, nella prefettura di Osaka, dove ha sede la più antica casa automobilistica nipponica.

Daihatsu ha informato le autorità competenti, congelando le consegne non effettuate e istituendo una commissione per chiarire i dettagli di quanto avvenuto, analizzare le cause, comprendere i dettagli (da quanti anni andasse avanti il mal costume) e definire eventuali misure di prevenzione.

NUOVE SCUSE PER TOYODA DI TOYOTA

E c’è un altro elemento che permette di tracciare un parallelo con Hino: il fatto che entrambe le realtà appartengano a Toyota. Il presidente Akio Toyoda si è perciò trovato nuovamente nella situazione di profondersi in inchini di scuse pubbliche per una “inaccettabile” violazione della fiducia dei consumatori. “Procederemo con un’indagine dettagliata, ma promettiamo di capire con decisione cosa è successo, indagare sulle vere intenzioni e lavorare sinceramente per evitare che si ripeta. Però, avremo bisogno di un po’ di tempo”, ha aggiunto Toyoda.

LO SCANDALO DI HINO

Lo scandalo della Hino Motors Ltd, produttore di camion e autobus aveva portato la casa madre controllante, la ben più nota Toyota, a prendere le distanze dalle condotte che hanno portato la realtà guidata dal CEO Yoshio Shimo a falsificare i dati per anni, con la stessa azienda costretta a più riprese ad annunciare nuovi stop alle spedizioni di veicoli all’estero.

L’indagine, secondo quanto ha ricostruito la stampa giapponese, era stata avviata dopo che Hino aveva ammesso di aver mentito sui dati relativi alle emissioni e al consumo di carburante di quattro dei suoi motori turbodiesel per mezzi pesanti. L’ammissione della divisione veicoli industriali di Toyota (50,1% del capitale) non era però completa, tant’è che la prosecuzione dell’inchiesta ha fatto venire a galla episodi di falsificazione risalenti all’ottobre 2003, mentre quelle sui consumi sarebbero iniziate nel 2005. L’azienda, invece, aveva detto che andavano avanti dal 2016. Il tutto, secondo quanto emerso dai lavori della commissione d’inchiesta esterna voluta dallo stesso costruttore e guidata da un ex magistrato, Kazuo Sakakibara, già procuratore capo del distretto di Osaka, per non scontentare i vertici.

GLI ULTIMI STRASCICHI DELL’AFFAIRE TAKATA

Ancora più recente il maxi richiamo da 270mila unità di Volkswagen che ha riportato indietro le pagine del calendario al 2017, anno dello scandalo e del conseguente fallimento del costruttore Takata. Il richiamo della casa automobilistica tedesca ha riguardato difatti una nuova tranche di modelli in cui è installata la tecnologia del produttore giapponese Takata.  Secondo i dati dell’autorità federale tedesca per i trasporti automobilistici “guasti nel generatore di gas degli airbag frontali” potrebbero portare a un “dispiegamento incontrollato e rilascio di frammenti di metallo che potrebbero ferire gli occupanti”. È tornato così prepotentemente d’attualità l’incubo degli airbag difettosi prodotti dal costruttore giapponese Takata che, come si anticipava, proprio a causa dei continui malfunzionamenti dei suoi dispositivi era stato costretto a dichiarare bancarotta nel 2017.

Una chiusura con strascichi anche in tempi ben più recenti, se si considera che Ford ha comunicato alla fine della scorsa settimana alla National Highway Traffic Safety Administration che sta richiamando poco meno di 100.000 vecchi pickup Ranger per dare ai suoi tecnici la possibilità di sostituire correttamente gli airbag Takata.

E prima, nel settembre 2021 il quotidiano tedesco Der Spiegel aveva riportato che l’ente federale Usa dei trasporti NHTSA (National Highway Traffic Safety Administration) aveva aperto un’ulteriore indagine su più di 30 milioni di vetture costruite tra il 2001 ed il 2019 equipaggiate con i tristemente noti airbag a rischio. Si trattava di mezzi di marche di lusso, come pure di costruttori generalisti, che non avevano responsabilità diretta nella vicenda, come Porsche, Jaguar Land Rover, Ferrari, Tesla, Bmw, Chrysler, Daimler, Ford, GM, Nissan, Mazda, Subaru e Toyota.

A gennaio 2020, poco prima dello scoppio della pandemia di Covid-19 (motivo per il quale la notizia passò inosservata) si scoprì che il nitrato di ammonio utilizzato come esplosivo per l’espansione del cuscino d’aria subiva modifiche a causa di umidità e temperature elevate, provocando di fatto uno scoppio molto più forte al punto da “sparare” componenti metalliche nell’abitacolo e ferire i passeggeri. Ecco perché attualmente il marchio tedesco sta privilegiando i richiami dei veicoli consegnati in “Paesi caldi, come per esempio il Sud America”.

IL DIESELGATE DI MITSUBISHI

Tornando indietro nel tempo, un altro scandalo di grossa portata fu quello, scoppiato nel 2016, che riguardò Mitsubishi. “Abbiamo riscontrato – fu costretta ad ammettere la stessa casa nipponica – che l’azienda ha condotto impropriamente i test sulle emissioni sui consumi di carburante, per presentare tassi migliori di quelli attualmente realizzati”. Le auto coinvolte all’epoca furono oltre 600mila.

“Voglio esprimere le mie scuse più profonde a tutti i nostri clienti e alle altre parti coinvolte” disse il numero uno di Mitsubishi, Tetsuro Aikawa, mentre il titolo perdeva il 15%. “Abbiamo deciso di arrestare la produzione e la vendita dei modelli coinvolti”. L’agenzia governativa giapponese per la tutela dei consumatori aveva comminato una multa da 480 milioni di yen (l’equivalente di 3,9 milioni di euro) nei confronti della Mitsubishi.  Nel 2018 irregolarità erano emerse anche con riferimento ad altri marchi nipponici.

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