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Fca-Psa, Elkann sulle relazioni industriali incalza i sindacati e spiazza Confindustria

Le implicazioni sindacali dell'accordo di fusione tra Psa e Fca secondo Walter Galbusera, già segretario generale della Uil metalmeccanici di Milano, ora presidente della Fondazione Anna Kuliscioff

La nuova società FCA-Peugeot non sarà solo rose e fiori ma è un segnale di ottimismo per il futuro. Dovrà affrontare la sfida di un mercato a livello mondiale che oggi ristagna, cimentarsi con una costosa e complessa innovazione tecnologica e costruire un rapporto con i propri dipendenti sula base di una cultura partecipativa che si fonda sulla consapevolezza di interessi comuni tra capitale e lavoro.

A questo proposito il consiglio di amministrazione della nuova società, una volta insediato, provvederà a cooptare al suo interno due rappresentanti dei lavoratori di Fca e di Peugeot. E’ un evento imprevisto che sembra voler dare una nuova identità culturale all’azienda. Una svolta impensabile per la vecchia Fiat, ma che neppure rientrava tra gli obiettivi dichiarati, né tantomeno rivendicati, della maggioranza delle organizzazioni sindacali italiane né di quelle francesi.

Il modello partecipativo Fca-Peugeot, che non pone ai dipendenti la pregiudiziale di acquistare quote azionarie, si avvicina nella sostanza a quello tedesco della “cogestione”, senza però dar vita ad un sistema duale con organismi separati tra gestione e controllo. I rappresentanti dei lavoratori sarebbero così membri, a pieno titolo, del consiglio di amministrazione a fianco degli azionisti privati, dello Stato francese e (forse) dei cinesi di Dongfeng.

Il lungimirante approccio di John Elkann, in materia di relazioni industriali, segue la recente operazione di rafforzamento nel settore dei media della famiglia Agnelli con l’acquisizione del gruppo editoriale Gedi-Repubblica e sembra delineare una strategia complessiva volta a favorire un clima di consenso sia all’interno delle fabbriche che nell’opinione pubblica per meglio governare un non facile percorso che, in un mercato sempre più competitivo, dovrà far fronte anche a inevitabili criticità derivanti da processi di razionalizzazione, di ristrutturazione e di trasformazione indotti dalla tecnologia e dal mercato.

Gran parte del sindacato è stato colto di sorpresa. La Fiom-Cgil si è trincerata dietro la proposta, ineccepibile, di far eleggere dai lavoratori il futuro membro del consiglio di amministrazione. Marco Bentivogli della Fim-Cisl sottolinea che la partita è grossa e servono sindacalisti competenti, aggiungendo con una punta di ironia che “già in troppe cooperative si alza la mano senza sapere cosa si vota e perché”. Da parte sua Roberto Di Maulo della Fismic-Confsal, un sindacato autonomo forte del 25% degli iscritti, non ha dubbi sul fatto che debbano essere i lavoratori a scegliere il loro rappresentante ma è altrettanto convinto che i candidati, scelti tra i dipendenti Fca in Italia o negli Usa, debbano rispondere a criteri di competenza professionale.

Un altro aspetto interessante su cui il sindacato italiano dovrebbe riflettere riguarda l’evoluzione probabile dell’attuale contratto nazionale d’impresa Fca in un contratto almeno europeo della nuova impresa Fca-Peugeot.

Ci sarebbe invece da chiedersi quale sarà oggi l’effetto del nuovo modello partecipativo di Fca-Peugeot sulle imprese italiane alle quali, tranne rare eccezioni, non è mai passato per la testa di far entrare i dipendenti nei CdA, tantomeno senza che fossero azionisti. La Confindustria che ha sempre considerato questa eventualità alla stregua della peste bubbonica, ha accolto con stupore e preoccupazione la novità. Non si è ancora radicato nel nostro paese il concetto di responsabilità sociale di impresa che associ gli azionisti (shareholders) ai portatori di interessi diversi come i dipendenti e le comunità del territorio (stakeholders).

Per contro sarebbe sbagliato attribuire, di per sé, all’ingresso dei lavoratori nei CdA un valore palingenetico. Non sempre i CdA sono la mitica “stanza dei bottoni”, ma se tale scelta fosse condivisa tra le parti sociali, assumerebbe valore emblematico di democrazia economica per rendere compiuta la democrazia politica. Una tale svolta segnerebbe in maniere indelebile il riconoscimento esplicito di forti interessi comuni tra capitale e lavoro e l’abbandono, della cultura antagonista. Purtroppo nelle imprese e nei sindacati in Italia sopravvive una sorta di doppia personalità. Pesa da una parte e dall’altra una eredità ideologica conservatrice dura a morire, particolarmente tra gli apparati delle grandi organizzazioni, che difendono le proprie rendite di posizione.

Ciò avviene (e questa è la vera contraddizione) nonostante sia ragguardevole e prezioso il volume degli accordi sindacali, ispirati al più ragionevole pragmatismo riformista, che governano con coraggio e serietà situazioni di crisi drammatiche. Chissà se sarà ancora una volta il “mondo Fiat” , dopo il contratto nazionale di azienda di pochi anni fa, a dare una scossa per la modernizzazione delle relazioni industriali italiane che, al di là delle pur buone intenzioni manifestate, procede a passo di lumaca.

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