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Fca Dieselgate

Ecco come Goldman Sachs tampona Fca

L'approfondimento di Giuseppe Gallina

Goldman Sachs dedica al gruppo dell’automotive presieduto da John Elkann un lungo report di 45 pagine.

Cosa ci sia dietro il siluro lanciato da Goldman Sachs può affascinare gli specialisti in dietrologia. Per esempio, c’è chi sostiene che Goldman Sachs fosse contraria all’interruzione repentina (frutto di un attacco nevrotico molto intenso?) del negoziato, chi afferma che non sarebbe piaciuto il testo del comunicato stampa dell’8 giugno, chi punta il dito sulla lettera ai dipendenti a firma di John Elkann e chi, addirittura, chiama in causa incomprensioni linguistiche nella comunicazione tra uffici stampa includendo anche il convivio di ben cinque agenzie di pr assoldate in Inghilterra, Stati Uniti, Italia, Francia e Giappone per gestire i rapporti con i media. Goldman Sachs ed ex alti dirigenti della banca d’affari sono stati attori di rilievo nella trattativa condotta da Elkann con Parigi. Sta di fatto che i quattro analisti di Goldman Sachs, nell’elencare i punti deboli di Fca, dimenticano di celebrare il grande traguardo del quale Marchionne si è molto vantato: il presunto azzeramento del debito. Forse perché ottenuto anche e soprattutto a scapito di investimenti in prodotti e tecnologie.

I PUNTI DEBOLI DEL GRUPPO FCA

Sia chiaro, il quartetto di Goldman Sachs non ha svelato segreti. La lista dei “meno” si compone di cose note che Marchionne ha sempre negato. Almeno ufficialmente. Il Nord America rappresenta una parte “sproporzionata” delle attività di Fca e il ciclo di crescita in quella regione è giunto al termine; in Europa c’è da affrontare la normativa sulle emissioni di CO2 che entrerà in vigore nel 2021 e che significa fare importanti investimenti non esistendo attualmente una strada diversa, perché non aderire alle nuove regole comporta multe salatissime (secondo P.A. Consulting, Fca rischia 1,4 miliardi di euro); quotate Cnhi e Ferrari, restano da vendere i robot di Comau e la componentistica di Teksid: non facili da cedere anche perché non competitivi e tecnologicamente non interessanti. Quanto ai marchi cosiddetti “premium”, il ventilato interesse da parte di forze del mercato per Alfa Romeo e Maserati è sempre più solo un pio desiderio di certa stampa di prodotto.

I FLOP DELLE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Quanto alle fusioni/cessioni, gli analisti di Goldman Sachs sono anche qui impietosi: la storia delle fusioni è piena di flop e quella Fiat-Chrysler – osservano – è un caso a sé visti i notevoli e per certi versi unici vantaggi offerti dall’amministrazione americana a Chrysler pur di essere salvata dalla morte immediata. Ma c’è di più e di peggio a proposito delle fusioni e acquisizioni. Goldman Sachs ricorda che il governo americano ha sancito che il settore automotive è ambito di sicurezza nazionale assieme alla propria ricerca nel campo tecnologico. Con la conseguenza che ogni tentativo di acquisto/fusione dovrà superare il vaglio delle indagini della speciale Sezione 232 del Trade Expansion Act che risale al 1962. Questo pone dei grossi vincoli soprattutto se uno considera l’atteggiamento ondivago e spesso isterico del presidente Donald Trump.

FIAT E CHRYSLER NON SONO AUTOSUFFICIENTI

Dodici mesi dopo la fine di una stagione di Fiat e Chrysler che si era aperta con molte speranze e illusioni cosa si può dire oltre a quanto scritto da Goldman Sachs? A parte che azionisti e amministratori sembra abbiano accettato di buon grado le scarne versioni ufficiali sulla fine di Marchionne anche dopo le precisazioni dell’ospedale di Zurigo dove è stato in cura per oltre un anno, si deve concludere che Fiat e Chrysler non sono in grado di sopravvivere da sole e quindi non sono state salvate. Ferrari non ha ancora svelato cosa intenda per polo del lusso e non dell’auto premium, come si è a più riprese fantasticato (e in parte progettato) negli ultimi 15 e più anni. Secondo il Marchionne-pensiero, infatti, «le automobili sono paradossalmente incidentali per Ferrari, che è essenzialmente un marchio di lusso». Mah. Cnhi non è riuscita a sviluppare Iveco, che da quando venne fondata nel 1975, non è mai riuscita a diventare un costruttore globale e men che meno a incidere nell’alto di gamma che resta saldamente in mano ai costruttori tedeschi e scandinavi.

Estratto di un articolo pubblicato su lettera43.it

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