Quasi inevitabilmente, come i fiori di pesco a marzo, il ministro delle infrastrutture è stato chiamato a rilasciare dichiarazioni e commenti su Alitalia in queste prime settimane di vita del nuovo governo. La necessaria prudenza per chi ha in mano l’eterno dossier della compagnia di bandiera impone cautela e circospezione.
Non stupisce che, nell’attuale imprescindibile fase di ricognizione, sia difficile avere risposte complete e definitive su cosa accadrà. Eppure due spunti interessanti emergono dalle parole del ministro Enrico Giovannini.
Il primo lascia intendere una netta comprensione dello scenario competitivo.
La questione Alitalia “è un cubo di Rubik perché – essa – non è solo nazionale ma c’è un’attenzione molto forte di altre compagnie internazionali che legittimamente pretendono che le regole europee siano osservate”. In una sola lapidaria frase si chiarisce che le forze concorrenti dell’industria non sono amichevoli mani pronte a soccorrere generosamente il malato. Al contrario sono avversari che possono trarre beneficio dalla sua scomparsa. Ciò è vero da molto tempo prima che il ministro Giovannini fosse chiamato ad occuparsene. In realtà è vero da sempre perché questo è il sentimento che caratterizza la concorrenza.
I concorrenti, per quanto agli ingenui possa suonare eresia, non amano la concorrenza. Ognuno di essi aspira al monopolio. E il ministro non manca di chiarire che questa aspirazione è pienamente legittima. E nemmeno manca di chiarire che le regole europee, sottoscritte e condivise dall’Italia, stabiliscono che le aspirazioni imprenditoriali al monopolio, benché contenibili dalle disposizioni mitiganti in materia di cartelli, non hanno lo scopo di frustrare le aspirazioni dei singoli imprenditori al monopolio, o almeno al cartello. Infatti, nella letale dinamica della concorrenza, le regole europee hanno lo scopo di impedire che gli stati di appartenenza degli imprenditori falsino, attraverso i loro interventi straordinari, gli esiti dello spietato gioco.
Poiché, tuttavia, l’Ue non è stata dotata dai suoi membri della forza per imporre regole cogenti e totalitarie agli stati membri, la soluzione escogitata nel decennio di attuazione della deregulation del trasporto aereo, dal 1985 al 1995, è stata un farisaico compromesso: alla fine, se proprio uno Stato membro vuole fornire finanza straordinaria alla propria compagnia potrà farlo, in teoria una volta sola, purché quella finanza non sia utilizzata per il rafforzamento industriale dell’azienda ma esclusivamente per fini di “ristrutturazione”, eufemismo che sta per manifesta riduzione del perimetro industriale.
L’Italia, ed Alitalia, si sono misurate con questo problema già tre volte, nel 1998, nel 2002, nel 2006.
La condizionalità imposta all’impiego di capitale pubblico si è sempre risolta in una riduzione del perimetro industriale e mai è stato possibile impiegare quei mezzi per il fine naturale del capitale, il potenziamento industriale dell’azienda. L’Italia, nell’annosa vicenda Alitalia, ha dimostrato di avere potenti muscoli, perché ha violato la regola che consentirebbe l’intervento pubblico una volta soltanto nella storia di un’azienda, ma ha altresì mostrato di avere scarso cervello e povera fantasia perché quel sacrificio finanziario, per le condizioni imposte e pedissequamente adottate, si è rivelato puntualmente uno spreco. Avere chiaro questo quadro è l’indispensabile premessa di qualsiasi azione.
Un ministro che non ripete la solita filastrocca dello “stiamo valutando tra le numerose proposte di altri importanti vettori quella migliore per la nostra Alitalia”, ma avverte che gli altri importanti vettori sono soggetti ostili al rilancio di Alitalia è un vento nuovo e rinfrescante che spazza in un colpo due decenni di ingenuità mista a testardaggine.
Il secondo spunto interessante è di appena ieri.
Indica sommessamente una linea guida di un possibile piano d’azione e sottolinea, nelle parole del ministro, la necessità di lavorare sul tema dell’interazione tra le ferrovie ed Alitalia. Potrebbe essere la solita minestra già propinata, anche nel recentissimo passato, con semplicistico entusiasmo da chi ha immaginato il biglietto unico di viaggio di Alitalia e Trenitalia, modesto e fragile pilastro di una pericolosa integrazione societaria.
Ma è difficile pensare che il ministro delle Infrastrutture, in prima linea nella pianificazione del capitolo italiano del grande progetto Next Generation EU, con responsabilità diretta sul programma matrice di ogni altro, quello delle infrastrutture appunto, possa intendere quell’interazione come una gaia iniziativa di promovendita incrociata delle biglietterie. E potrebbe non essere casuale il riferimento a Ferrovie piuttosto che Trenitalia come soggetto dell’auspicabile interazione.
Al concetto di intermodalità è dedicato ampio spazio nella bozza di Piano NGEU-Italia predisposta dal precedente governo. Si tratta di una bozza che il nuovo governo ha dichiarato, fin dall’esordio del suo primo ministro, di condividere nel suo impianto. In essa l’intermodalità è affrontata nella sua dimensione appropriata di strategia di integrazione delle infrastrutture. Essa si sostanzia in interventi cosiddetti hard, fatti di scavi, ponti, gallerie, pose di binari, piattaforme di scambi, software gestionali, programmazione e integrazione di slot.
Roba da ingegneri e operai insomma, non da addetti alla promozione. Sarebbe il campo d’azione di RFI e Anas. Alitalia e Trenitalia, come altri operatori di trasporto, ne sarebbero certamente i beneficiari e, con loro, tutti gli utenti finali.