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Aukus

Novità e criticità dell’accordo Aukus sui sottomarini nucleari

La marina militare dell'Australia dovrà fare presto una scelta sui sottomarini a propulsione nucleare previsti dall'accordo Aukus. L'approfondimento di Giovanni Martinelli.

 

Era il 15 settembre del 2021 quando, quasi a sorpresa, Australia, Stati Uniti e Regno Unito annunciarono la firma di un patto nel campo della sicurezza e della difesa. Un patto ad ampio spettro, dato che prevede una cooperazione tra i 3 paesi in diversi settori: cyber-sicurezza, Intelligenza Artificiale (IA), tecnologie quantistiche, sviluppi di sistemi unmanned subacquei, collaborazione del settore delle armi ipersoniche (anche in funzione del loro contrasto), guerra elettronica e miglioramento dei meccanismi di scambio delle informazioni

Dunque, come detto, un “menù” molto ampio che però ha finito con il passare (e rimanere sempre) in secondo piano per effetto di un aspetto che ha invece completamente catalizzato l’attenzione generale fin dal primo momento. Ovvero il programma congiunto tra i tre paesi per la realizzazione di una nuova classe di sottomarini di attacco a propulsione nucleare, destinati proprio alla Marina australiana.

IL CASO AUKUS

Una scelta, questa, operata da Canberra anche traumatica; dato che ha coinciso con la contestuale cancellazione del contratto siglato con la Francia, che avrebbe dovuto portare alla costruzione di 12 battelli subacquei (ma questa volta a propulsione convenzionale) del tipo Shortfin Barracuda Block1A.

Fu però a tutti subito chiaro che l’arrivo di una nuova classe di sottomarini, e per di più dotati di un impianto propulsivo incentrato su un reattore nucleare, non sarebbe stato affatto una questione semplice; anche perché l’Australia puntava comunque a costruire queste nuove piattaforme localmente. E questo metteva in moto una serie di sfide da un punto di vista industriale così come di trasferimento di tecnologie critiche non indifferenti.

Allo scopo venne quindi creato un apposito gruppo di lavoro con il compito, da espletare nell’arco di 18 mesi, di definire quale sarebbero state le migliori soluzioni sia in termini di piattaforma vera e propria, sia di impegno industriale e tecnologico per i cantieri Australiani. Non senza aver affrontato, ovviamente, la stessa questione delle tecnologie critiche, legate soprattutto al tema della propulsione; ovvero alla questione dell’uranio arricchito impiegato nei reattori e al suo possibile utilizzo per la realizzazione di armi nucleari.

L’ANNUNCIO UFFICIALE SUI SOTTOMARINI

Ebbene, l’impegno di questo gruppo di lavoro si è concluso. E tutto sembra ormai pronto per un annuncio ufficiale, che secondo diversi fonti dovrebbe avvenire lunedì prossimo presso la base navale di San Diego, alla presenza del presidente americano Joe Biden e dei primi ministri australiano e britannico Anthony Albanese e Rishi Sunak.

Si verrà così a finalizzare un accordo storico che, in attesa delle comunicazioni ufficiali, è comunque già da giorni oggetto di indiscrezioni di ogni sorta. Talmente particolareggiati da poter essere considerate anche attendibili: al punto che, nonostante qualche aspetto ancora oscuro, diventa persino possibile svolgere una prima analisi.

In pratica, i requisiti di Canberra dovrebbero essere soddisfatti in due fasi. Nella prima, sarebbe più forte l’apporto degli USA, nel senso che dopo alcune visite di sottomarini Americani in basi Australiane e il successivo dispiegamento su base regolare di uno di essi in quella di Perth (in modo da far prendere loro contatto con queste particolari piattaforme), nei primi anni del prossimo decennio si passerebbe all’acquisto diretto di 3 sottomarini della classe Virginia (con la possibilità di aumentarli a 5).

Nel frattempo tecnici e lavoratori australiani si recherebbero negli Stati Uniti per apprendere le tecniche costruttive presso i cantieri che già realizzano questi battelli subacquei per la Marina americana; contribuendo al tempo stesso allo sforzo produttivo.

Questa prima fase sarebbe però destinata a fornire una “soluzione tampone”, in attesa di quella definitiva e oggetto invece della seconda. Destinata a svilupparsi a partire dagli anni 40, questa vedrebbe di fatto la partecipazione di Canberra al programma SSN(R) già avviato dal Regno Unito e destinato alla costruzione della futura flotta di sottomarini d’attacco della Royal Navy.

Una partecipazione che porterebbe dunque allo sviluppo di una piattaforma comune da realizzare poi in ciascuno dei due paesi (ma sempre con la forte collaborazione degli Stati Uniti), soddisfacendo così una delle condizioni poste da Canberra; ovvero, rafforzare la propria Marina (sono infatti 8 i battelli previsti) ma, al tempo stesso, coinvolgere il più possibile l’industria locale. Anche in questo caso, tecnici sarebbero gradualmente inviati nel Regno Unito stesso, sempre per acquisire maggiori competenze e per partecipare più attivamente alle fasi di progettazione di questa futura classe di battelli subacquei.

GLI ASPETTI CRITICI

Ora, al netto dei punti di interesse nello schema proposto, non si possono però non evidenziare anche diversi aspetti critici. A cominciare dalla prima fase, laddove si deve tenere conto che i cantieri Americani faticano già oggi ad aumentare i ritmi produttivi dei Virginia, a fronte di una sempre maggiore richiesta da parte della US Navy; soddisfare dunque commesse aggiuntive appare quanto meno dubbio. Inoltre, i Virginia stessi sono battelli che potrebbero essere troppo “impegnativi” rispetto alle possibilità complessive Australiane.

Il secondo tema riguarda il prospettato passaggio dai sottomarini Americani a quelli del programma congiunto anglo-australiano; qui i dubbi sono legati al fatto che questi ultimi arriveranno comunque quando i Virginia in dotazione alla Marina di Canberra saranno pienamente operativi, con una potenziale sovrapposizione tra le 2 piattaforme che potrebbe rivelarsi particolarmente complicata. Per non parlare poi delle reali capacità dell’industria (cantieristica, ma non solo) Australiana di far fronte alla costruzione locale di quelle che sono e restano le piattaforme navali da realizzare più complesse in assoluto.

Sullo sfondo poi, altri due temi; quello dei costi dell’intero programma (che si possono pronosticare fin da oggi molto elevati; come minimo, nell’ordine dei 100 di miliardi di dollari almeno). E quello già accennato del trasferimento di tecnologie, argomento delicato soprattutto quando si parla di nucleare.

Insomma, i punti interrogativi non mancano e non è detto che il previsto annuncio di lunedì sia in grado di fornire tutte le risposte. Sennonché, al netto delle tante difficoltà che Canberra dovrà sicuramente affrontare nei prossimi anni, è comunque innegabile che la sua scelta, da un punto di vista tecnico-operativo, non può che essere definita ineccepibile, quasi obbligata

E ciò a fronte della crescente sfida militare in atto nella regione del Pacifico; tale da richiedere piattaforme come quelle previste con doti in termini di prestazioni complessive (velocità e autonomia) nonché di capacità belliche (con il loro carico di siluri e missili da crociera) assolutamente indispensabili.

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