Caro direttore,
in visita a Napoli nel 1776, il marchese De Sade partecipa alle baldorie notturne della nobiltà partenopea e gusta i bei gelati offerti dal Borbone. Finché, una sera, si accorge che le coppe contenenti gli squisiti sorbetti sono legate al tavolo con lunghi spaghi, e chiede a un duca la ragione di una tale novità. “Perché Sua Maestà -gli spiega il duca- si è accorta che ai suoi cortigiani fanno gola più le coppe che i gelati, e pertanto ha preso questa precauzione”. Poi, abbassando la voce, implora: “Non lo dica in Francia, per carità”.
Questo aneddoto, raccontato da Luigi Compagnone in un divertente saggio sull’indole festaiola degli italiani, ci parla dell’arguzia di un sovrano -Ferdinando I- e dell’avidità di una aristocrazia parassitaria. Due secoli e mezzo dopo, cambia la scena ma gli attori sono gli stessi. Sono appunto gli italiani, che non hanno mai smesso di pensare al loro paese come a un paese un po’ ribaldo e un po’ innocente, in cui il ricorso diffuso a metodi illegali non è mai stato visto come un morbo, una patologia, ma come l’espressione di un congenito spirito d’iniziativa, di creativa vitalità.
Un grande critico letterario, Cesare Garboli, ha scritto nei suoi “Ricordi tristi e civili” (2001) che l’inguaribile malcontento del nostro popolo nasce da una ancestrale diffidenza verso lo Stato, sentito non come una federazione di cittadini ma come una realtà punitiva, estranea e usurpatrice.
Giuseppe Conte ha cavalcato abilmente questo sentimento, costringendo Elly Schlein a seguirlo sulla strada di un pacifismo inconcludente e della polemica astiosa contro il governo Meloni, contro Israele, contro l’Europa matrigna e le dissolute élite globaliste.
In questo senso, Guglielmo Giannini è l’antenato più diretto dell’ex avvocato del popolo oggi giudice della moralità di un partito che, pur avendo il doppio dei suoi voti, sembra aver perso quella virtù che si chiama dignità politica.
Nel 1947 il fondatore dell’Uomo Qualunque cercò un’intesa col Pci per rovesciare il governo De Gasperi. Si trovò di fronte non soltanto al diniego di Palmiro Togliatti, ma alla vivace reazione dei suoi elettori, i quali gli ricordarono che il movimento era sorto proprio per combattere “l’arrivismo spudorato dei mestieranti della politica”. Il 18 aprile del 1948 Giannini veniva clamorosamente battuto e scompariva dalla ribalta nazionale.
Ci riflettano quei cocciuti dirigenti del Pd che volevano “romanizzare i barbari” e che invece rischiano di essere da costoro “barbarizzati”.