Il problema della violenza sulle donne e della violenza in genere realizzata o nata nel contesto familiare, non è solo da esaminare con riguardo al pesante numero delle vittime accertate che tragicamente finiscono sulle pagine della cronaca nera, è soprattutto da inquadrare nel sommerso delle forme di violenza, in quello che non si vede e che non emerge ma che può degenerare.
Ma quale soluzione percorrere per evitare il dramma della violenza di genere oltre a rafforzare i sistemi di allerta, di monitoraggio, di intervento tempestivo, di formazione ed educazione al rispetto della persona e della dignità umana?
Mi rendo conto che potrebbe essere una goccia nel mare e che la problematica della violenza di genere, della violenza sui minori o sulle persone anziane o, peggio, con disabilità ed incapaci di difendersi, così come ogni forma di violenza derivante da storture sociali, che è causa di “sopraffazione e abuso” sulle altre persone, sia un problema vasto da affrontare e che non è solo figlio di una povertà culturale talvolta aggravata da un contesto socio economico eccessivamente disgregato o per contro, in taluni casi, da un contesto economico elevato ed eccessivamente “protetto”, dove si genera e si alimenta la cultura del più forte, della supremazia e dell’invincibilità figlia di una di impunità che diviene letale nei rapporti sociali.
Cosa accadrebbe se cominciassimo a rimuovere o a pensare di cambiare talune norme che oggi, per le finalità che le hanno viste nascere nel secolo scorso, possono apparire obsolete e, persino, pericolose?
Memore anche della partecipazione nel 2019 ad alcune riunioni del tavolo sulla violenza di genere della Presidenza del Consiglio dei Ministri per conto dell’allora Sottosegretario di Stato alla Disabilità, formulo alcune riflessioni, ed una provocazione, che credo che debbano portarci, come Cittadini prima e come persone impegnate nella società civile, a ripensare ed attualizzare, talune forme di tutela verso i componenti dei nuclei familiari, intesi come prima cellula ed esempio fondativo di governo sociale della comunità, con particolare attenzione verso i più fragili.
La consapevolezza della necessità di innovare il sistema di protezione dei componenti del nucleo familiare e non solo, che tuttavia credo sia un sentire comune, diviene tangibile innanzi a un sistema di giustizia di primissima istanza che, talvolta, per mille motivi – taluni noti altri meno – sembra non sapere come agire o sembra non essere in grado di poter vedere ciò che si cela dietro una richiesta di aiuto, o perché non è adeguatamente formato per captare quei segnali che possono degenerare in fatti ben più gravi o ancora, forse perchè i carichi della giustizia sono troppo elevati, perché manca il personale, perché mancano i mezzi , perché mancano le risorse o più semplicemente perchè quel quieto vivere del territorio presidiato, ove alla fine, soprattutto nei piccoli ambiti urbani e non, nei piccoli centri, ci si conosce tutti, va preservato?
Ed ecco la provocazione che faccio:
Ci si è mai chiesto in questo Paese quali siano o possano essere gli effetti devastanti, anche sotto il profilo della lotta alla violenza in ambito familiare (che è subdola e multiforme) di quel retaggio protezionistico dell’unità familiare inseguita a tutti i costi che è la non punibilità di taluni reati soggetti a querela di parte offesa se questi ricadono nell’alveo dello scudo penale rappresentato dall’art. 649 CP, per me norma drammaticamente colpevole di creare un paravento all’impunibilità di fatti reato che poi spesso degenerano?
Che accade quando una donna o un uomo, denunciano un reato che invece di essere immediatamente accertato e, se necessario perseguito, finisce per essere, prima ignorato e poi, se la vittima insiste nel chiedere aiuto alla giustizia, archiviato perché ricade nei fatti resi impunibili dal 649 c.p.?
Quali sono gli effetti di una mancata azione penale per via dell’archiviazione della denuncia che possono ricadere sulla vittima di reato che vede così negata la protezione offerta dall’azione penale stessa?
Non si rischia, così facendo, di alimentare, con quel non poter punire, per proteggere l’unità (non più esistente) della famiglia, il “senso di impunibilità” di chi abusa, a discapito della vittima?
Quante volte le denunce vengono prima ignorate poi archiviate e la vittima, se gli va bene, finisce al pronto soccorso?
Quante volte ancora dobbiamo leggere sui giornali di genitori massacrati di botte dai figli che rubano in casa per comprarsi la droga, o di donne che avevano lanciato allarmi sulle violenze subite tra le mura domestiche (e non) che sono rimasti inascoltati e che poi sono state massacrante?
Di esempi ne potremmo fare tanti.
Alla luce della recrudescenza delle violenze in ambito familiare, qualche domandina facciamola a noi stessi e al legislatore sul senso attuale di quel 649 cp, che reca la “Non punibilita’ e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti” che, come detto non è solo una questione codicistica da riesaminare, ma sembra essere ancora un elemento attraverso il quale la giustizia opera per non entrare a pié pari nel privato della famiglia là dove, invece , dovrebbe essere presente per evitare guai peggiori. Pensiamoci, il Codice Penale non è immutabile ma deve seguire le evoluzioni sociali anche prevenendo la commissione di reati che, da lieve entità, come le liti familiari – in un ambiente disgregato – possono degenerare in modo imprevedibile.
Certo la recente approvazione in via definitiva, da parte del Senato, del Ddl contro la violenza di genere è un importante passo in avanti, mi auguro quindi che presto si possa armonizzare maggiormente il nostro sistema di giustizia per la tutela delle vittime di reato in ambito familiare, ripensando quel 649 cp.
Un pensiero va quindi a Giulia Cecchettin e Rita Talamelli, le ultime due vittime di femminicidio che potevano essere evitate, così come per le altre 101 vittime che le hanno precedute in questo 2023, se, ove utile a salvare anche solo una di quelle Donne, il 649 c.p. fosse stato modificato. Non è tardi per farlo.