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Femminicidio

Giulia Cecchettin, i femminicidi e i numeri

Dati Istat alla mano, è difficile sostenere che la matrice dei femminicidi italiani sia da ricondurre a una specificità dei maschi italici o della cultura italiana, a meno di non argomentare che c’è una cultura particolarmente più maschilista in paesi come Austria o Germania. Estratto dalla newsletter Appunti a cura di Stefano Feltri

Un punto di partenza è questo ben noto grafico dell’Istat sugli omicidi volontari in Italia per genere tra 2002 e 2021.

Ci dice che, nel complesso, l’Italia è un paese sempre più sicuro dal punto di vista del rischio di trovarsi vittima di un assassinio.

Colpisce però che la linea rossa, quella degli omicidi volontari di cui sono vittime le donne, sia sostanzialmente stabile.

E questa è una prima evidenza che c’è un problema specifico con la violenza di genere, che non si riduce quanto quella tra uomini.

Ma neanche aumenta – e questo è un dato da tenere presente, quando si ragiona sulle possibili spiegazioni.

C’è un crescente sensibilità ai femminicidi, sacrosanta, ma non un aumento dei femminicidi in valore assoluto (a meno che non si consideri la loro quota sul totale degli omicidi volontari, quella aumenta perché si riducono gli omicidi tra uomini).

Il passaggio dal mondo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi – con i mariti che picchiano le mogli tutte le sere – a quello dei dibattiti sulla schwa, farebbe immaginare un drastico crollo della violenza di genere e dei femminicidi.

Mentre varie spiegazioni della violenza – non so quanto sostanziate dai dati – tipo l’esplosione dei social network e il facile accesso al porno online potrebbero spingere nell’altra direzione, quella di un aumento.

I due effetti potrebbero forse compensarsi.

Fatto sta che i femminicidi non calano.

I dati sul 2023, aggiornati alla settimana scorsa, sono questi del ministero dell’Interno:

Quelli che di solito classifichiamo nella discussione come femminicidi sono quelli degli ultimi due gruppi, o più specificamente del terzo (quindi 53 nella classificazione più restrittiva, oppure 82). Sempre troppi

Un problema italiano?

Le facili spiegazioni culturali – tipo che l’Italia è un paese maschilista – si scontrano con l’evidenza che l’Italia è uno dei paesi europei con meno femminicidi, se parametrati alla popolazione femminile.

Qui sotto l’elaborazione di Openpolis sul numero di omicidi volontari commessi da familiari o (ex) partner ogni 100mila donne nei paesi Ue (2020).

Quindi è difficile sostenere che la matrice dei femminicidi italiani sia da ricondurre a una specificità dei maschi italici o della cultura italiana, a meno di non argomentare che c’è una cultura particolarmente più maschilista in paesi come Austria o Germania.

Ma davvero qualcuno potrebbe sostenere che la Svezia è un paese più patriarcale della Grecia?

Si potrebbe indagare l’ipotesi che ci siano più femminicidi là dove c’è una maggiore presenza di immigrati che hanno una cultura con maggiori disparità di genere, cosa complessa da investigare perché in Germania o in Francia ci sono molte persone di cultura e religione diversa dalla maggioranza ma con la cittadinanza, dunque non straniere.

Non ho una spiegazione alternativa, ovviamente, ma tenere presente i dati serve a evitare di trasformare le nostre opinioni o esperienze personali in leggi con una presunta validità universale.

O almeno ad avanzare analisi con maggiore cautela.

La cultura patriarcale e maschilista è un problema, che si misura da mille altri indicatori e produce molti danni (anche economici, per lo spreco di talenti), ma è difficile – almeno sulla base dei dati – identificarla come “la” spiegazione dei femminicidi.

La specificità della violenza

Spostare sempre tutto sul piano della cultura e dell’idea che gli uomini hanno delle donne fa perdere di vista la specificità del femminicidio che è la violenza e l’omicidio.

L’insistenza sul patriarcato e la cultura diffusa sembra presupporre una specie di continuum che va dall’uso del maschile sovraesteso nel linguaggio al commento sessista alla molestia allo strupro al femminicidio. Tutti gli uomini si collocano su un gradino della scala del sopruso, pronti a salirla.

La Commissione parlamentare di inchiesta sui femminicidi e la violenza di genere, però, suggerisce altre possibili analisi del fenomeno che si concentrano sulla sua caratteristica essenziale: l’uso estremo della violenza fino all’omicidio.

Questa prospettiva porta a interrogarsi non su come una cultura diffusa porti alla violenza, ma su quali sono le caratteristiche specifiche dei soggetti che – a parità di contesto – compiono qualcosa di così estremo.

Il dossier sulla risposta giudiziaria ai femminicidi della Commissione di inchiesta offre alcuni spunti utili, anche se è limitato al solo biennio 2017-2018.

Sempre con l’avvertenza che stiamo parlando di un campione ristretto a meno di 200 omicidi, si osserva che le vittime molto giovani o molto anziane sono più dei loro assassini in queste categorie, segno che i femminicidi avvengono spesso con una sproporzione di potere tra assassino e vittima.

E questa chiave del potere, più che del movente con una matrice sessuale o a dinamiche di prevaricazione interna alla coppia, risulta rafforzata da un dato: le fasce di età in cui l’incidenza dei femminicidi è massima sono quelle più raccontate dai giornali – 25-44 anni – ma anche sopra i 65 anni.

Ci sono altri elementi che mi colpiscono nella relazione della Commissione di inchiesta: gli assassini sono molto più frequentemente partner che ex partner (57,4 per cento contro 12,6 per cento), dunque non sempre l’innesco è la rottura della coppia; spesso gli autori di femminicidio si suicidano ma i partner si suicidano molto meno dei padri che uccidono le figlie (41 per cento contro 67 per cento).

Se ne potrebbe concludere che i partner pensano di poter continuare a vivere più dei padri assassini, e questo rafforzerebbe invece le interpretazioni che ci sia qualcosa di specifico nel rapporto uomo-donna inteso come coppia, più che in generale nella società.

Anche se resta da capire che cosa possa mai scattare nella testa del femminicida: anche se evita di suicidarsi, non può certo sperare di continuare come se nulla fosse, visto che la cronaca di mostra che ormai ha zero possibilità di evitare di rispondere per le sue colpe.

Sempre la Commissione di inchiesta ha svolto un lavoro prezioso quanto scomodo sugli “uomini autori di violenza nelle relazioni affettive”. Quindi non femminicidi, ma violenti e abusatori. Gente con cui non vorremmo davvero parlare, ma siamo grati che qualcuno l’abbia fatto per darci spunti utili.

In Italia ci sono pochi programmi dedicati a uomini responsabili di violenze, però sembra che questi strumenti siano una strada promettente almeno per quelle storie che vedono le donne intrappolate in un ciclo di abusi e perdono che può talvolta finire con l’epilogo più tragico.

Sembra, secondo la letteratura internazionale, che la partecipazione a questi programmi riduca il tasso di recidiva del 36 per cento.

Significa riuscire a prevenire episodi di violenza potenzialmente mortali.

Ci sono una lunga serie di accortezze nel gestire questi dati, per esempio il campione potrebbe essere auto-selezionato (vanno nei centri quelli che già sono propensi a correggersi) e non vengono considerati episodi estremi preceduti da comportamenti magari preoccupanti ma non fisicamente violenti.

Poi c’è un punto politico non da poco, perché significa investire risorse pubbliche e attenzione per dedicarle agli abusatori invece che alle vittime.

Lo studio della Commissione è comunque un’utile guida a impostare il dibattito, perché distingue tre tipi di prevenzione della violenza:

– la prevenzione primaria riguarda interventi atti al mantenimento di uno stato di benessere e di assenza di situazioni di violenza o a una sua promozione;

– la prevenzione secondaria consiste in interventi rivolti a situazioni in cui la violenza è in uno stato di potenzialità, oppure alle prime fasi del processo di escalation;

– la prevenzione terziaria, infine, riguarda interventi volti a contrastare la violenza in atto e ad evitare in particolar modo ulteriori gradi di escalation di comportamenti lesivi oppure casi di recidiva della condotta di maltrattamento.

Il primo tipo è quello che riguarda i valori e la società nel suo insieme, ma gli altri due sono quelli che incidono più nell’immediato sulle statistiche dei femminicidi.

Perché la persona che è più propensa a commettere il femminicidio è sicuramente chi ha già dimostrato un comportamento abusante e una tendenza all’uso della violenza.

La prevenzione primaria – che si tratti di campagne nelle scuole, di politiche di welfare, di iniziative culturali – va fatta a prescindere, nell’ottica di costruire una società con meno disparità di genere e più sicura.

Le altre due forme di prevenzione sono quelle che possono salvare vite nell’immediato, ma che ovviamente non hanno effetti generali e di lungo periodo.

(Estratto dalla newsletter Appunti)

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