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Le università italiane sono un colabrodo. Report

L'80% delle università e il 57% degli enti di ricerca afferma di non disporre di un programma/regolamento a tutela della sicurezza della ricerca. Dunque, sarebbero in grave difficoltà in caso di ingerenze straniere...

 

Il governo ha annunciato un Piano d’azione nazionale per tutelare l’università e la ricerca italiane dalle ingerenze straniere affermando che, in seguito alle indagini dell’intelligence, è emerso un “drenaggio occulto di conoscenze scientifiche tecnologiche” verso Paesi non nominati ma considerati ostili.

Pur spiegando che l’intervento è dovuto all'”adempimento di un obbligo europeo”, che chiede di adeguarsi agli standard internazionali di sicurezza, sorge il dubbio che si debba correre ai ripari perché finora i livelli di sicurezza non sono stati così elevati.

Le nostre università infatti sono preparate ad affrontare le insidie che potrebbero essere poste in atto da eventuali agenti esterni?

LA RISPOSTA ALLA RACCOMANDAZIONE UE

Il 23 maggio scorso il Consiglio dell’Unione europea ha messo in guardia gli Stati membri dai rischi di ingerenze straniere in cui possono incorrere ricercatori e accademici. L’Italia ha quindi risposto annunciando un Piano d’azione nazionale, le cui linee guida dovrebbero arrivare a dicembre in occasione del G7 a Bari sulla sicurezza della ricerca.

Intanto, però, tutte le università e gli enti di ricerca italiani sono stati chiamati dal ministero dell’Università e della Ricerca (Mur) a compilare un questionario per rilevare la percezione dei rischi e sulle attività poste in essere relative alla sicurezza della ricerca.

LE UNIVERSITÀ SONO PREPARATE?

Secondo la ricostruzione che circola in ambienti governativi, considerando l’elevata partecipazione degli attori coinvolti nell’indagine, il quadro è abbastanza chiaro (oltre che sconcertante): allo stato attuale le nostre istituzioni di ricerca, e in particolare le università, non sono pienamente preparate ad affrontare le insidie che potrebbero essere poste in atto da eventuali agenti esterni.

L’80% delle università e il 57% degli enti di ricerca ha infatti risposto di non disporre di un programma/regolamento a tutela della sicurezza della ricerca. Inoltre, l’84% degli atenei e il 64% degli enti di ricerca afferma di non disporre di una procedura formalizzata per identificare, segnalare e rispondere agli incidenti di sicurezza della ricerca.

Proprio per questo è inoltre emerso che esigenze di sicurezza della ricerca sono state già avvertite in maniera crescente nell’ultimo triennio da buona parte dei nostri istituti e la percezione diffusa è che questa esigenza è destinata ad aumentare nell’immediato futuro.

FRONTE CYBER E MOBILITÀ INTERNAZIONALE

Va decisamente meglio sul versante cyber, su cui la quasi totalità degli intervistati dichiara di avere procedure e meccanismi tecnologici per limitare l’accesso ai sistemi informativi. Tuttavia, alla domanda se ci fosse un protocollo di richieste di protezioni informatiche minime per i partner di progetto, l’86% delle università e il 57% degli enti di ricerca ha risposto negativamente.

Inoltre, l’86% delle università dichiara di non avere procedure relative alla sicurezza della ricerca per il personale che viaggia per affari istituzionali, docenza, partecipazione a conferenze o per scopi di ricerca, così come nel 72% dei casi non vengono forniti briefing sulla sicurezza della ricerca ai partenti prima dei viaggi internazionali per garantire la consapevolezza dei potenziali rischi e delle relative misure di sicurezza e ancora meno (93%) per gli ospiti internazionali.

COSA HA DETTO MANTOVANO TRA LE RIGHE

Il sottosegretario Mantovano, che non ha mai fatto particolare riferimento ad alcun Paese straniero, ha tuttavia parlato di “passaggi che presentano profili di vulnerabilità” e ha aggiunto che in Italia – Paese tra i più esposti “perché produce innovazione” – “c’è un vuoto di protezione anche nella percezione dei ricercatori e di chi si muove nell’ambito dell’università”.

Stando a quanto scrive il Fatto Quotidiano, il “drenaggio occulto di conoscenze scientifiche tecnologiche nel campo dell’università e della ricerca” sarebbe indirizzato “principalmente verso la Cina e in pochissimi casi verso l’Iran”.

L’OMBRA CINESE

Quanto si sospetta che accada o possa accadere con la ricerca italiana non è però un caso isolato. Come osserva Giulia Pompili sul Foglio, “un mese fa cinque studenti cinesi dell’Università del Michigan sono stati incriminati in America perché sospettati di aver spiato le Forze armate americane; a maggio in Germania sono stati arrestati tre cittadini cinesi sospettati di voler trasferire tecnologia militare fingendo di fare attività di ricerca con almeno tre università tedesche”.

Inoltre, Pompili ricorda che “l’allarme nelle università e nella ricerca italiani era stato sollevato anche dal Dis nel suo ultimo rapporto, che identificava esplicitamente nella Cina il paese più problematico dal punto di vista della sicurezza. Eppure, in Italia a differenza di altri paesi occidentali, nessuna università ha mai chiuso le relazioni con un Istituto Confucio, e il governo italiano in generale fa ancora fatica a pronunciare la parole Cina“.

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