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Rapporto Censis

L’Italia nel rapporto Censis: il Paese dei sonnambuli nel tempo dei desideri minori

Dal 57° Rapporto Censis emerge che gli italiani nel 2023 sono apparsi fragili, impotenti e rassegnati. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo Miur e Ministero della Pubblica istruzione

Il pregio ricorrente dei Rapporti Censis è quello di fotografare la realtà sociale del Paese con il grandangolo che coglie i fenomeni macro sociali e con il teleobiettivo che ne evidenzia gli aspetti più evidenti e significativi. Ma anche quello di coniare metafore descrittive che inglobando i dati ne esplicitano le rappresentazioni iconografiche prevalenti e significative.

Nel presentare — ospiti nella sede del Cnel — il 57° Rapporto del 2023 dell’Istituto Presieduto da Giuseppe De Rita, il Segretario Generale Giorgio De Rita e il Direttore Generale Massimiliano Valerii richiamano implicitamente la metafora usata lo scorso anno, quella di una immagine recessiva del corpo sociale, sia dal punto di vista demografico che del sentimento collettivo prevalente e implicitamente condiviso, che si esprime in una sorta di ritrazione silenziosa verso dimensioni miniaturizzate, parcellizzate, di piccole patrie e minime rivendicazioni: una deriva che rafforza la percezione di un indebolimento collettivo, una nebulosa sfuggente (già anni fa il Presidente De Rita aveva parlato di società-mucillagine), con ambizioni contratte e traguardi inespressi.

Il dato del decremento demografico è l’incipit da cui partire, in sintonia con l’Istat: nel 2050 l’Italia avrà perso 4,5 milioni di residenti, una cifra che somma gli abitanti di due città come Roma e Milano. Ma accanto alla contrazione demografica rapportata alla metà del secolo si aggiunge la stima di 8,1 milioni di persone in età attiva in meno: una scarsità di lavoratori che avrà inevitabili impatti sulla struttura dei costi del sistema produttivo e sulla capacità di generare valore del settore industriale e terziario.

Tuttavia lo specifico analitico e descrittivo del Censis si caratterizza nella interpretazione dei dati: emerge intento che gli italiani nel 2023 sono apparsi fragili (il 56% ritiene di contare poco nella società), impotenti (il 71 % prova profonda insicurezza) e rassegnati (l’80% ritiene che l’Italia sia inesorabilmente un Paese in declino).

Complessivamente la società italiana sembra essersi inabissata in una sorta di ipertrofia emotiva, uno stato che il Censis descrive efficacemente come “sonnambulismo”, un mix di consapevolezza confusa declinante nella percezione indistinta di uno stato di malessere e un ingovernabile senso di impotenza: a disegnare modelli di sviluppo, a colmare il gap tra cittadini e istituzioni (attraverso un progressivo processo di disintermediazione sociale), a sbloccare l’ascensore della crescita inchiodato al piano terra (anche se un recente editoriale del Prof. De Rita sul Corsera invita a considerare anche quella parte di Italia “che va” e tiene accesa la fiammella della speranza). Ma nell’atmosfera emotiva in cui la società italiana si è immersa, vincono le credenze fideistiche: ogni verità ragionevole può d’improvviso essere ribaltata, sbullonata dal piedistallo della indubitabilità per effetto di una nuova ondata di spasmi emotivi.

Così l’84,0% degli italiani teme il clima impazzito causa della moltiplicazione delle catastrofi naturali, ogni anno più frequenti, il 73,4% ha paura che i problemi strutturali irrisolti del nostro Paese siano l’incipit di una crisi economica e sociale molto profonda, il 73,0% che gli sconvolgimenti globali sottoporranno l’Italia alla pressione di flussi migratori sempre più intensi che ci metteranno di fronte all’evidenza di una ingovernabilità dell’arrivo di milioni di persone in fuga dalle guerre e per effetto del cambiamento climatico (ricordiamo che nel 2050 secondo l’Istat la popolazione nigeriana sarà la terza del mondo, in parte stanziale in Europa), per il 70,6% i rischi ambientali, quelli demografici e quelli ora connessi alla guerra provocheranno un crollo della società, favorendo la povertà diffusa e la violenza, e mentre il 68,2% immagina che in futuro patiremo la siccità per l’esaurimento delle risorse di acqua, il 53,1% teme che il colossale debito pubblico, in cammino verso la cifra record di 3.000 miliardi di euro, provocherà il default finanziario dello Stato italiano, infine il 43,3% paventa che resteremo senza energia sufficiente per tutti i bisogni. Il ritorno della guerra spettacolarizzata dai social media ha alimentato una paura ulteriore: la metà degli italiani ha timore che non saremmo in grado di respingere l’aggressione militare di una potenza straniera.

Anche i servizi di welfare del futuro proiettano nell’immaginario collettivo preoccupazioni smisurate: il 73,8% degli italiani ha paura che non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni e il 69,2% pensa che negli anni a venire non tutti potranno essere curati, perché la sanità pubblica non riuscirà a garantire prestazioni adeguate.

Sono ormai perdute nelle chimere del passato le descrizioni di una società ammaliata dalla “sontuosità iper-acquisitiva”: la deriva descritta dal 57° Rapporto Censis muove verso un ridimensionamento delle aspettative, nella creazione immaginifica di nicchie di sussistenza, nel rintanarsi in desideri minori abbandonato ogni stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, declinando verso una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori e per garantirsi uno spicchio di benessere in un mondo fondamentalmente ostile. Il 74,8% dei lavoratori oggi dichiara esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più, e non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo.

Il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario: per l’87,3% degli occupati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita sarebbe un errore. Si tratta di una forma inedita e contemporanea del tradizionale desiderio di autonomia individuale, che ora si incammina sui sentieri del benessere minuto, individuale, nella persuasione che questa sia la modalità migliore per accedere a una più alta qualità della vita. Non sorprende che per il 62,1% cresca il desiderio di momenti da dedicare a sé stessi per combattere l’ansia e lo stress, o che un plebiscitario 94,7% consideri centrale la felicità delle piccole cose di ogni giorno, come appunto il tempo libero, gli hobby, le passioni personali. Proprio in tema di lavoro siamo passati rapidamente dagli allarmi sugli elevati tassi di disoccupazione al record di occupati, mentre il sistema produttivo lamenta sempre più frequentemente la carenza di manodopera e di figure professionali. La fase espansiva dell’occupazione, avviata già nel 2021, si è consolidata nel primo semestre di quest’anno e le aree economiche più attive del Paese hanno mantenuto un forte presidio dei mercati esteri, tanto da ottenere risultati mai visti prima nei livelli delle esportazioni.

E mentre monta l’onda lunga delle rivendicazioni dei diritti civili, cresce parallela l’incomunicabilità generazionale: la distanza esistenziale dei giovani di oggi dalle generazioni che li hanno preceduti sembra abissale. Si ha l’impressione che lo scandaglio sociale operato dal Censis in questo 57° Rapporto esprima mai come in passato il segno di una profonda trasformazione in atto, di una fase di transizione di cui si colgono significativi e indistinti presagi che riguarderanno la dimensione soggettiva dell’identità personale e le macro derive che il “corpaccione” sociale va appena appena esprimendo in discontinuità con il passato.

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