Non è vero che le azioni che si compiono, i comportamenti che si mettono in atto e ciò che si utilizza per mera abitudine consolidata e persino prevalente sia o possa diventare obbligatorio per prassi: come si dice in termini giuridici “la consuetudine non può mai operare contra legem”.
In molti istituti scolastici i dirigenti scolastici hanno di fatto imposto ai docenti l’utilizzo del registro elettronico in sostituzione di quello cartaceo, in ogni ordine e grado, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado. La motivazione più accreditata è l’estensione – per una sorta di transfert applicato ad ogni contesto istituzionale e degli apparati della P.A. – della digitalizzazione come modo di svolgere operazioni d’ufficio, pratiche, annotazioni: insomma la sostituzione dei tradizionali mezzi – carta e penna – con le nuove tecnologie, per comunicare o archiviare.
Una deriva che ha assunto toni e modalità attuative persino parossistiche, applicando un principio generale a fattispecie sulle quali occorrerebbe esercitare il prioritario uso del pensiero critico e del buon senso. Specie quando l’uso del digitale vale più come metodo a prescindere, senza chiedersi se ci sia una corrispondenza pratica in termini di efficienza, efficacia, praticità, riservatezza ovvero trasparenza degli atti: se la forma prevale sulla sostanza si rischia di compromettere la concretezza per favorire una prassi acritica, suscettibile di generare complicazioni anziché la tanto decantata semplificazione. Ma la manualità non si riduce alla sola digitazione, premere un tasto non potrà mai sostituire lo scrivere una parola, il passato non si cancella e vanno conservate tutte le modalità attraverso cui esprimersi e comunicare.
Le contestazioni al registro elettronico riguardano in prevalenza la sua effettiva utilità, il tempo necessario per compilarlo, il suo essere strumento di annotazione e certificazione consultabile.
Un ispettore scolastico in visita ad una classe avrebbe difficoltà, ad esempio ad accedere ai dati: esercitando una funzione istituzionale di controllo nell’interesse del pubblico servizio dovrebbe poter disporre ‘ictu oculi’ cioè ‘de visu’ di tutti gli elementi di valutazione. L’archiviazione digitale dei dati richiede username e password (per non dire il resto) che la rendono criptica, differibile e persino potenzialmente alterabile (qui non vale l’antico detto ‘scripta manent’).
Questo è un aspetto riduttivo di una malintesa autonomia scolastica perché gli atti di istituto devono essere consultabili: la qualità del servizio scolastico viene verificata attraverso il controllo tecnico, per le vie amministrative ma il registro di classe è un documento pubblico che afferisce ad un pubblico servizio. Su questo la giurisprudenza è pacifica. Esiste peraltro – e non è stato soppresso – un modello cartaceo di registro di classe validato dal Ministero e distribuito – con oneri di acquisto – a tutti gli istituti scolastici della Repubblica. Mandarlo al macero in attesa che venga ufficialmente sostituito da quello digitale (se e quando ci sarà) sembra francamente uno spreco di denaro pubblico.
Vero è che il D.L. n. 95 del 2012, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 135, aveva introdotto l’obbligo per le scuole di dotarsi di registro elettronico a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013, prevedendo che il MIUR predisponesse entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto un piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, università e ricerca e dei rapporti con le comunità dei docenti, del personale, studenti e famiglie. Questo piano tuttavia non è mai stato predisposto, vanificando la norma e rendendo non obbligatorio l’utilizzo di registro e pagelle elettroniche. Come peraltro puntualizza in modo inequivocabile la sentenza della Cassazione Sez. V, Sent., (ud. 02-07-2019) 21-11-2019, n. 47241 ed è noto che le Sentenze di Cassazione fanno giurisprudenza fino a diversa legislazione.
Si aggiungano le due Sentenze del Giudice del Lavoro del Tribunale di Catania dell’8/9/2020 secondo cui le disposizioni del citato D.L 95/2012 sul registro elettronico assumevano una valenza meramente programmatica, non essendoci stata una successiva regolamentazione attuativa. Infine il Presidente della stessa Sezione Lavoro del Tribunale di Catania in data 2/12/2020 annullava la sanzione disciplinare inflitta da una Dirigente Scolastica ad alcune insegnanti si erano rifiutate di utilizzare il registro elettronico. Da quando grazie alle intuizioni di una politica che predilige gli effetti speciali sono state accreditate metafore come quelle del ‘preside sceriffo’ o ‘capitano della nave’, sta passando una declinazione para-militare dell’organizzazione scolastica. Fino a quando non sarà reso obbligatorio, il registro digitale di classe è solo sperimentale e non è sufficiente una delibera del collegio dei docenti per imporlo né tanto meno che qualcuno possa dire “si usa perché lo dico io”.
Sic stantibus rebus, dunque, il tipo di registro da usare deve rispondere ai criteri di utilità, praticità, certezza delle modalità di compilazione e resta – fino a prova contraria – uno strumento d’uso del docente che rientra nel più ampio contenitore della libertà d’insegnamento: che è indefettibilmente e per giurisprudenza libertà di metodo.