Se si crede alla voluminosa letteratura sul management, l’efficienza dipende dal controllo dell’attività cerebrale. Il filosofo Byung-Chul Han avverte che la società dell’over-performance ci minaccia di esaurimento e ci consiglia di adottare l’antidoto del “non fare”. Scrive Le Monde.
CERVELLO PIGRO…
Oggi i dipendenti sono responsabili del funzionamento del loro cervello. Almeno, questa è la sensazione che emerge dalla pletora di letteratura manageriale dedicata all’ottimizzazione dei neuroni. In Accompagner le changement avec les neurosciences (ovvero, Sostenere il cambiamento con le neuroscienze) Anne-Laure Nouvion sottolinea che “la ricerca sul cervello si è notevolmente ampliata negli ultimi dieci anni (…). La comprensione del cervello umano e delle sue interazioni con il mondo circostante è una chiave essenziale per migliorare l’efficacia manageriale”.
Il problema? Si dice che il cervello sia un terribile fannullone che limita al massimo ogni sforzo cognitivo, frenando l’idea di cambiare qualcosa nella sua routine. Secondo l’esperto, ammorbidire la resistenza al cambiamento è quindi una sfida importante per le aziende che devono affrontare processi di trasformazione organizzativa. Per farlo, però, è necessario comprendere le esigenze specifiche di questo corpo complesso e flessibile, per il quale ogni sfida alla stabilità acquisita si accompagna al rischio di perdere l’orientamento.
Nel suo libro Jérémy Coron, specialista in neuroscienze applicate ai processi decisionali, fa la stessa osservazione. Il cervello è programmato per la sopravvivenza piuttosto che per la produttività, il che spiegherebbe comportamenti come la procrastinazione, la perdita di concentrazione e la demotivazione. Ciò che dobbiamo fare è portare il cervello fuori dalla sua zona di comfort, o addirittura “hackerarlo”, per sfruttare al meglio il suo potenziale inesplorato.
…O VIOLENZA NEURALE?
In contrasto con tutta questa letteratura, La Société de la fatigue (ovvero La Società della stanchezza), un saggio intelligente e iconoclasta di Byung-Chul Han, figura di spicco della filosofia internazionale, offre una visione completamente diversa di questa mania per il cervello. Secondo l’autore tedesco di origine sudcoreana, siamo passati da una società disciplinare, che si manifesta nei numerosi vincoli imposti all’individuo, a una società della prestazione, caratterizzata da uno sfruttamento di sé che sembra, per molti aspetti, essere pienamente condiviso – e quindi tanto più efficace.
L’ottimizzazione delle funzioni cerebrali, o addirittura il “doping cerebrale” (neuroenhancement), ne è la manifestazione emblematica. Collegare l’iperattività a un discorso di libertà individuale e alla scoperta di un continente inesplorato di capacità è al tempo stesso la forza e il pericolo di questa nuova operazione sistemica: a differenza delle vecchie forme di costrizione, non suscita alcuna reazione di sopravvivenza, né la minima protesta. “La violenza neurale sfugge (…) a qualsiasi prospettiva immunologica”, scrive Byung-Chul Han, il che significa che è praticamente impossibile difendersi dallo sfruttamento quando assume le sembianze dell’ottimizzazione.
Infatti, perché dovremmo confrontarci con i migliori, i più, iper, bodybuilding corticale, memoria a prova di proiettile e lettura veloce, se siamo noi a migliorare? Eppure “è un’illusione credere che più siamo attivi, più siamo liberi”, sottolinea il filosofo. Per l’imprenditore di noi stessi che siamo, è difficile capire che realizzarsi senza limiti significa consumarsi.
Byung-Chul Han contrasta il rischio di “surriscaldamento dell’ego” che accompagna lo sviluppo di questa società dell’eccesso di prestazioni, e dell’esaurimento che è in agguato, con una salutare etica del “non”. O del “non fare” come antidoto alla schiavitù dell’essere da parte del neurone onnipotente.
(Estratto dalla rassegna stampa estera a cura di eprcomunicazione)