Nell’edizione del 29 dicembre de “La Lettura” del Corriere della Sera, un breve intervento di Paolo Benanti ha voluto richiamare l’attenzione sugli aspetti ancora troppo sottovalutati dei social network e del loro impatto sul concreto funzionamento dei sistemi democratici contemporanei, nei quali gli individui sono forzati (e apparentemente felici) creatori di contenuti: “La facilità di comunicazione e la disintermediazione dei social media – scrive Benanti – hanno creato nuove sfide, come la diffusione di disinformazione e fake news, e l’uso di tattiche di manipolazione cambiando il modo di fare politica, amplificando la velocità e la portata con cui le opinioni possono essere condivise portando a una dittatura della trasparenza, in cui gli individui sono costantemente monitorati e spinti a conformarsi“.
È il paradosso dell’apparente libertà della contemporaneità digitale, che più volte ha denunciato il filosofo Byung-Chul Han, secondo cui “mentre pensiamo di essere liberi, oggi siamo intrappolati in una caverna digitale. Siamo incatenati allo schermo digitale […] intrappolati nelle informazioni” (“Infocrazia”, Einaudi 2023): alla narrazione, alla lentezza e all’approfondimento del mondo che ci circonda succede sostanzialmente incontrastato il dominio delle informazioni, la cui natura frammentata e il cui rumore continuo e caotico non fanno che riempire l’angoscioso timore del vuoto di molti. Difficile spiegare altrimenti la diffusione impetuosa e inarrestabile dello smartphone, strumento elettronico la cui originaria funzione di effettuare telefonate è ormai assolutamente marginale e che è divenuta una cyberappendice del corpo umano: 7 persone su 10 utilizzano oggi un telefono cellulare “smart”, mentre sono attualmente in funzione più di 7 miliardi di smartphone. Ove solo si aggiunga a questa cifra il numero di telefoni cellulari di ultima generazione usati e gettati (o conservati) degli ultimi 10 anni, è facile, peraltro, rendersi conto dell’impatto sulla vita degli individui e quello, spaventoso, che investe l’ambiente. Inoltre, passando all’Italia, secondo i dati ISTAT ben il 55,8% degli adulti utilizza i social network, mentre la percentuale sale all’80,7% fra i giovani. Numeri in crescita costante.
Tralasciando, in questa sede, gli effetti potenzialmente negativi dell’utilizzo massiccio e senza mediazioni dei social sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi, di cui parla ampiamente Jonathan Haidt nel suo “La generazione ansiosa” (Rizzoli 2024), e su cui il dibattito a livello internazionale è sempre più acceso, preoccupa come l’invasività dei social media possa influenzare il proseguire della postmodernità e l’intera dimensione relazionale degli esseri umani. Non sembri un timore esagerato: le trasformazioni del vivere quotidiano intervenute in pochissimi anni sono strabilianti e decisamente preoccupanti. Basta viaggiare su un vagone della metropolitana o leggere un qualsiasi quotidiano per rendersi contro di come l’attenzione dell’homo digitalis sia merce preziosa e combattuta all’ultimo sangue da parte delle grandi piattaforme, potenze transnazionali che riescono senza troppi sforzi, complici folle di volenterosi prosumer (consumatori e produttori di contenuti, allo stesso tempo), a influenzare in profondità e in maniera sempre maggiore ogni aspetto della vita delle persone.
Non siamo all’ora zero, naturalmente: ma siamo in tempo per far sì che le tecnologie siano a misura d’uomo e che non si ceda, in assenza di un adeguato sforzo interpretativo della realtà, alle facili lusinghe della dopamina dei like, che seducono senza imporre. In un regime di ferreo e onnipresente oligopolio della rete, siamo costantemente indaffarati a creare contenuti digitali senza futuro e senza profondità su Instagram e TikTok, la cui durata è effimera come quella di una farfalla. Occupatissimi a curare relazioni deboli con “amici” digitali e follower, non siamo stati mai tanto soli, abbuffandoci di serie televisive e di video di gattini in rete. Come ricorda Vanni Codeluppi, siamo di fronte al trionfo del “culto del banale” (“La morte della cultura di massa”, Carocci 2024): le conseguenze, purtroppo, minacciano di essere tutt’altro che banali e il rischio è che si sia troppo indaffarati a scattare selfie per rendersene conto.
(Estratto dal blog tantopremesso.it)