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Gli ospedali italiani cadono a pezzi ma non è un problema di fondi

In Italia un terzo degli ospedali non è adeguato né alle norme antincendio né a quelle antisismiche e le strutture di assistenza costruite dopo il 1991 sono meno di quelle dell'anteguerra. I fondi da usare ci sarebbero ma non tutte le regioni li sfruttano, secondo la Corte dei Conti. Fatti, numeri e commenti

 

È il solito ritornello: si sapeva ma non si è fatto niente per prevenire. L’incendio divampato nella notte tra venerdì e sabato scorso all’ospedale di Tivoli era un disastro annunciato. Oltre a essere tra le peggiori strutture sanitarie del Paese per le prestazioni, secondo l’ultimo report dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), è anche tra gli ospedali più antichi, che necessiterebbero di interventi di rinnovamento e di messa a norma. Come denuncia, infatti, la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), “un terzo degli ospedali italiani non è adeguato alle norme antincendio, così come a quelle sulla sicurezza antisismica”.

E non è nemmeno un problema di fondi perché, secondo quanto affermato dalla Corte dei conti, quelli ci sarebbero ma sono le regioni che non li spendono.

QUANTI SONO GLI OSPEDALI DELL’ANTEGUERRA

Tra le antichità dell’Italia ci sono i suoi ospedali. Dall’audizione di maggio scorso in commissione Affari sociali al Senato della magistratura contabile nell’ambito dell’indagine sull’edilizia sanitaria, è emerso che delle 4.058 strutture d’assistenza presenti sul territorio solo 734 sono state costruite dopo il 1990, e che hanno quindi meno di 33 anni. Mentre quelle che risalgono a prima della della fine della Seconda guerra mondiale sono 1.073.

Fonte: Corte dei conti

IL FONDO PER METTERE IN SICUREZZA GLI OSPEDALI

A maggio la Corte dei conti ha rilevato inoltre che le risorse ancora da utilizzare erano “poco meno di 10,5 miliardi” e rappresentavano “circa il 43% delle somme attribuite al programma”. Istituito con la legge 67 del 1988, esiste infatti un fondo denominato “articolo 20”, dedicato all’edilizia ospedaliera, che dovrebbe appunto servire a costruire nuove strutture sanitarie o a ristrutturare e sistemare quelle già esistenti.

QUALI REGIONI AGISCONO E QUALI NO

Come osserva la Corte dei conti, questo dato “nasconde diversità considerevoli tra regioni”. In particolare, “sono ben 7 le regioni che presentano risorse da utilizzare sopra la media con 4 regioni in particolare che hanno sottoscritto accordi per meno del 40% delle somme disponibili”. “Il confronto tra lo stato del programma nel 2016 con quello degli anni più recenti – prosegue – conferma il rilievo delle somme non utilizzate; sono 10 le regioni che non hanno portato avanti nuovi accordi pur avendo ottenuto il finanziamento per il complesso delle risorse degli accordi sottoscritti”.

Tra le più virtuose la Provincia autonoma di Bolzano (100%) e quella di Trento (77,5%), il Veneto (76,7%) e la Toscana (72,4%). Tra chi invece non ha fatto i compiti, il Molise (15,8%), l’Abruzzo (24,2%), la Calabria (38,6%), ma anche il Lazio si ferma a meno della metà (43,4%).

Fonte: Corte dei conti

Anche il centro di ricerca Cergas dell’università Bocconi, nel suo rapporto Oasi citato da Repubblica, sottolinea che “all’infuori di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, negli ultimi vent’anni non si è riusciti, anche in presenza di finanziamenti, a investire in modo significativo sul rinnovamento delle reti di cura ospedaliere e ancora meno sul territorio”. Inoltre, “la realizzazione di nuovi presidi ospedalieri non è stata quasi mai accompagnata dalla razionalizzazione dell’offerta esistente”.

PERCHÉ I FONDI NON VENGONO USATI

La Corte dei conti ritiene che il mancato utilizzo di tutte le risorse a disposizione dalle regioni sia da imputare al “crescente ricorso alle risorse correnti per finanziare gli investimenti, nonostante la forte penalizzazione contabile di ‘spesare’ al 100% il cespite nell’anno di acquisizione”, ma anche alla “difficoltà di accedere con facilità a risorse in conto capitale”.

“È chiaro quindi – afferma la Corte -, che la difficoltà di accedere con facilità a risorse in conto capitale combinata con la mancata disponibilità di risorse di natura corrente per il finanziamento di investimenti, potrebbe generare in alcune realtà territoriali il mancato rinnovo delle infrastrutture aziendali, con conseguenti maggiori rischi sanitari (connessi ad oneri derivanti da contenzioso per rischio clinico), maggiori costi di gestione e di manutenzione, nonché minore efficacia delle cure. Di converso negli enti del SSN, in cui risulta possibile attingere risorse dal finanziamento di parte corrente per la realizzazione di investimenti (soprattutto quelli che presentano carattere di urgenza e mancata differibilità), ciò crea un aggravio sulla spesa corrente, che potrebbe anche implicare un rischio di minore ovvero difficile erogazione dei LEA”.

Anche per il presidente della Fiaso, Giovanni Migliore, intervistato da Repubblica, “il percorso per ottenere le risorse è farraginoso, spesso i soldi arrivano molti anni dopo la richiesta e quando si fanno le gare di appalto è passato troppo tempo”. Inoltre, in alcuni casi, aggiunge Migliore, le strutture che richiederebbero degli interventi, come nel caso dell’ospedale di Tivoli, si tratta di centri che sono l’unico punto di riferimento del territorio, rendendo di fatto impossibile lo stop dei servizi di assistenza per svolgere i lavori.

COSA PROPONE DI FARE LA CORTE DEI CONTI

In merito alla procedura per ottenere i fondi, la Corte dei conti chiede dunque una semplificazione: “[…] appare opportuno prevedere la definizione di una procedura più snella per gli interventi contenuti negli Accordi di minore rilievo (investimenti di piccola dimensione, manutenzioni straordinarie, acquisti di apparecchiature, etc.), mantenendo un maggior dettaglio (ma adeguando l’analisi alle procedure più recenti, ad esempio, quelle utilizzate dalla Bei) per gli investimenti su nuove strutture in cui l’impatto e la coerenza con il modello esistente è più importante”.

“In ogni caso – continua -, è necessario rivedere le procedure per eliminare quanto più possibile i passaggi non indispensabili, accrescendo e accentrando, dopo la condivisione degli Accordi, la gestione di integrazioni o modifiche in pochi attori. Ciò consentirebbe di ridurre gli oneri procedurali richiesti da eventuali modifiche che si rendessero necessarie. Si tratta, poi, di continuare ad operare per superare i problemi di approccio a modalità di progettazione più complesse attraverso lo sviluppo di competenze all’interno delle amministrazioni, contrastando su questo fronte il progressivo impoverimento delle strutture tecniche. La possibilità di accedere a fondi o partecipare a gare internazionali richiede, in ogni caso, di sviluppare capacità di gestione di contratti pubblici. Anche sulla base dell’esperienza maturata con i progetti del PNRR, si tratta di valutare se mettere a disposizione risorse da utilizzare per migliorare la qualità della progettazione o affidare il compito di assistenza ad uno o più enti di natura pubblica, ma sempre con l’obiettivo di far crescere adeguate strutture interne”.

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