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Scuola

Esistono ancora il diritto allo studio e la libertà di insegnamento?

In un'epoca di povertà educativa e di omologazione culturale il "diritto allo studio" e la "libertà d'insegnamento" dovrebbero essere riconsiderati e valorizzati. L'intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo MIUR e Min. P.I.

 

Tra i vari nuclei tematici che la scuola sembra aver perduto strada facendo il diritto allo studio e la libertà d’insegnamento sono indubbiamente quelli più rilevanti e con maggiore valenza simbolica e ricadute operative.

Non si tratta tuttavia dei sassolini che Pollicino lasciava cadere dietro di sé per ritrovare la via del ritorno, quanto piuttosto di illustri convitati di pietra al banchetto della pedagogia oggi prevalente, acriticamente protesa al nuovo da inventare e dimentica della tradizione ricevuta. Eppure si tratta di principi fondativi del sistema di istruzione ai quali i padri costituenti avevano attribuito un ruolo centrale sul piano politico e culturale e riassuntivo rispetto ai compiti della scuola, nell’ottica dei diritti e dei doveri irrinunciabili.

Ricordando i cento anni dalla nascita di Don Milani viene spontaneo evocarne la figura e l’opera educativa, non in senso retorico e celebrativo quanto per l’operosità e l’esempio, l’umiltà e la dedizione agli ultimi che hanno caratterizzato il suo essere maestro nella scuola e nella vita. Nell’Italia del secondo dopoguerra – che affrontava la ricostruzione del Paese afflitta dalla piaga del diffuso analfabetismo – egli fu una delle figure più rappresentative della volontà di riscatto e di crescita.

Di lui il Presidente Mattarella ha detto: “Il motore primo delle sue idee di giustizia e di uguaglianza era appunto la scuola. La scuola come leva per contrastare le povertà. Anzi, le povertà. Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino. La scuola per conoscere”.

A ben guardare è proprio il vulnus della povertà educativa una delle derive negative del nostro tempo: in questo fu precursore di una intuizione che avrebbe poi caratterizzato non solo il tema dell’uguaglianza delle opportunità di partenza ma anche il completamento di un percorso nel perseguimento dell’uguaglianza delle opportunità di arrivo.

Fondamentali sono stati alcuni passaggi normativi come i Programmi della scuola elementare del 1955, l’istituzione della Scuola Media unica nel 1963 e della Scuola materna statale nel 1968 (fortemente voluta da Aldo Moro fino a provocare una crisi di Governo), l’istituzione della scuola a tempo pieno con la legge 820/1971, la “mitica” legge 517/1977 che legittimò il principio della programmazione educativa individualizzata e l’integrazione degli alunni disabili e svantaggiati: in quegli anni il tema del diritto allo studio fu posto al centro del dibattito pedagogico, come attuazione dell’art. 34 della Costituzione e come impostazione metodologico-didattica-organizzativa di una scuola aperta al sociale e orientata a valorizzare le potenzialità di ciascun alunno.

Erano gli anni dei famosi “decreti delegati” che operarono una trasformazione profonda nell’impianto del nostro sistema scolastico.

Il tema della libertà d’insegnamento fu particolarmente rilevante per istituzionalizzare e incardinare nel sistema formativo la figura del docente, dei suoi diritti e dei suoi doveri: si può a ben vedere parlare di centralità della ‘funzione docente’ al punto che quella ‘direttiva’ e quella ‘ispettiva’ ne erano la derivazione per differenziazione di ruolo e attribuzione, a tali gradi si accedeva per concorso ma essere insegnanti era l’imprescindibile punto di partenza.

Da qualche decennio il metodo e la prassi dello spoil system hanno investito in parte anche la scuola, specialmente nel reclutamento per chiamata da parte della politica degli ispettori che dovrebbero esercitare non solo un compito di vigilanza e controllo ma essere cerniera tra l’amministrazione scolastica centrale e quella periferica, valorizzando la terzietà della loro funzione, svincolata dai lacci e laccioli della gerarchia e legata alla valutazione tecnica e all’esperienza professionale messa al servizio del rispetto delle norme e dell’ortodossia dei processi di organizzazione del pubblico servizio scolastico.

Molto afflato sui temi del diritto allo studio e della libertà di insegnamento si è affievolito nei decenni successivi, paradossalmente in concomitanza con il progressivo emergere della lunga stagione dei diritti. Perché l’uguaglianza di opportunità come ‘occasioni istituzionalmente date’ all’utenza scolastica propugnava – è vero – il diritto allo studio per tutti ma non lo disgiungeva dal dovere di perseguirlo.

Raggiungere i più alti gradi degli studi non comporta un cammino in discesa: lo studio implica applicazione, metodo, diligenza e sacrificio. La stagione dell’uno vale uno e del tutto che spetta a tutti ha deprivato il processo di acculturazione e formazione soprattutto sul piano etico, le teorie della facilitazione e della semplificazione dei contenuti di apprendimento hanno completato l’opera di dissacrazione della scuola.

Conta il risultato, non come arrivarci e questo spiega il fallimento scolastico, gli abbandoni e la cultura posticcia, omologata e impoverita.

Ricordo un pensiero di Antonio Gramsci: “non si può render facile ciò che non può esserlo senza esserne snaturato”. Quando un sistema scolastico ridimensiona storia e geografia – che sono le coordinate spazio temporali della vita – per generare un mostriciattolo ibrido come la geo-storia vuol dire che si è fatto un passo indietro in “scienza e coscienza”.

Gli insegnanti derisi e impallinati da adolescenti che sono meno studenti e più follower dei loro influencer, hanno poche speranze rispetto alla legittimazione della loro libertà di insegnamento. Gli istituti scolastici erano il tempio della cultura ora sono il luogo di sdoganamento dei social, nel nome delle nuove tecnologie: fermare le quali al cospetto della cultura tramandata è peccato di lesa maestà.

Ma oggi i docenti e la loro libertà di insegnamento (che è libertà di metodo come pedagogia e dottrina insegnano) si trovano in una scuola diversa, magari più autonoma ma non per questo meno burocratizzata. Qualche ministro ha inventato per i dirigenti scolastici le metafore dei ‘presidi sceriffi’ e dei ‘capitani delle navi”, ma anche costoro, oberati da pesanti responsabilità, sono diventati vittime di un sistema reso più difficile e complesso, loro malgrado: troppe riunioni (sottraendo il tempo alla didattica e all’insegnamento), troppe circolari, troppe formule, sigle, acronimi. Non ci si parla più, tutto viene formalizzato, irrigidito e irregimentato.

Nella scuola dei progetti effimeri e senza controllo di merito o verifica finale, si perdono i sentimenti e le emozioni, anticamera della creatività, non c’è spazio per il pensiero divergente, tutto diventa difficile e complicato. A cominciare dai registri di classe rigorosamente elettronici, imposti anche se non obbligatori: carta e penna basterebbero per semplificare l’appello del mattino.

Non tutto è così, anzi: la maggior parte dei Dirigenti scolastici guida la propria scuola con lodevole abnegazione, competenza e responsabilità. Ma la libertà di insegnamento è un orpello fastidioso che si va smarrendo nei meandri angusti di ciò che viene concesso nelle troppe e lunghe riunioni: approvo/non approvo/ mi astengo.

Gli insegnanti entrano in aula sfiduciati da un clima sociale sospettoso e a volte ostile, schiacciati da una burocrazia oppressiva, con le manette ai polsi della privacy e della trasparenza.

Viva la scuola viva.

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