Il decreto e il disegno di legge per abbattere le liste di attesa nelle strutture sanitarie ci sono. Ma le risorse? Già la divisione in due del provvedimento dimostra che un problema di copertura c’è. L’intenzione originaria infatti era arrivare ieri in consiglio dei ministri con un unico decreto per la riforma della sanità, ma la mancanza di fondi ha imposto di trovare una soluzione, per così dire, alternativa.
Come scrive il giornalista che segue la sanità Giovanni Rodriquez sul Foglio, “a fronte dell’esigenza di circa un miliardo, il ministro della Salute si è trovato a dover fare i conti con una disponibilità di circa 300 milioni di euro” e le associazioni di categoria criticano.
QUANTE RISORSE CI SONO (PER DAVVERO) E QUANTE NE SERVONO
“Se un paziente deve ottenere una risonanza entro 72 ore l’avrà dove è possibile e a pagare sarà il Ssn”, ha dichiarato in conferenza stampa il ministro della Salute, Orazio Schillaci. Secondo il decreto, infatti, l’Asl “dovrà garantire” la stessa prestazione dal privato accreditato con tariffe concordate o in intramoenia, con il cittadino che dovrà pagare solo il ticket, se non è esente.
Ma come sarà finanziato questo meccanismo? Il provvedimento, spiega Marzio Bartoloni del quotidiano Il Sole 24 Ore, “prevede innanzitutto che sarà un provvedimento attuativo con le Regioni a definire modalità e dettagli entro 60 giorni, ma intanto non vengono aggiunte risorse nuove per finanziarlo, attingendo a due commi dell’ultima manovra che prevede di poter usare lo 0,4% del finanziamento del Ssn (oltre 500 milioni) per le liste d’attesa e aumenta di 123 milioni il tetto di acquisti dal privato nel 2024, 370 milioni nel 2025 e quasi 500 milioni dal 2026”.
Per il quotidiano economico, se saranno sufficienti per venire incontro alla domanda insoddisfatta di cure che costringe 3 milioni di italiani a non curarsi per colpa di liste d’attesa troppo lunghe “si vedrà nei prossimi mesi anche perché da prime stime sembra che la misura costi oltre un miliardo l’anno”.
COSA RIESCONO (FORSE) A COPRIRE
La necessità di circa un miliardo per tagliare significativamente le liste di attesa nelle strutture sanitarie si è scontrata con la realtà e “per limitare almeno in parte i malumori degli operatori – si legge sul Foglio -, Schillaci ha deciso di puntare quasi tutto sulla defiscalizzazione di quelle prestazioni aggiuntive che i medici dovrebbero garantire anche nei fine settimana o in orario serale per smaltire le liste d’attesa, sfilandola dal disegno di legge e inserendola nel decreto per renderla immediatamente operativa”.
L’impatto economico di questa misura è stato stimato dal ministro in 250 milioni di euro. “L’esito di questo incentivo è però incerto – scrive Rodriquez -. Già oggi gli operatori sanitari per garantire un minimo turno di servizio nei fine settimana sono spesso costretti a ricorrere alle prestazioni aggiuntive o al ricorso ai cosiddetti medici a gettone”.
Nell’articolo si ricorda poi che i tempi di lavoro massimo definiti dalla normativa europea prevedono 48 ore settimanali di cui 10 di straordinario e le ore aggiuntive rispetto all’ordinario non sono obbligatorie. “Anche a fronte di un indubbio vantaggio fiscale – afferma il giornalista -, alla luce di condizioni e orari di lavoro già oggi particolarmente stressanti molti medici potrebbero decidere di non aderire e godersi il loro (scarso) tempo libero. A quel punto, per garantire il rispetto dei tempi di attesa previsti per l’esame prescritto, secondo quanto previsto dal governo ci si dovrebbe rivolgere al privato accreditato”.
SINDACATI E ASSOCIAZIONI DI CATEGORIA SUL PIEDE DI GUERRA
A proposito della proposta di rendere disponibili le visite anche nel weekend, sono intervenuti Pierino Di Silverio, segretario nazionale Anaao Assomed, e Guido Quici, presidente nazionale Cimo-Fesmed (la federazione sindacale che rappresenta oltre 14.000 medici): “Non è accettabile chiedere a medici e infermieri di ridurre le liste di attese lavorando anche il sabato e la domenica quando per assicurare, in quei giorni, un minimo turno di servizio, si è già costretti a ricorrere alle prestazioni aggiuntive o a medici a gettone. Di certo l’incremento del 15% della spesa per il personale potrebbe aiutare, ma a condizione che le regioni utilizzino davvero queste risorse, quando arriveranno”.
E sullo spacchettamento delle misure: “Ridurre i sempre più lunghi tempi di attesa è un diritto del cittadino e un dovere del Governo, ma occorrono misure strutturali con risorse adeguate e durature nel tempo. È, quindi, inimmaginabile separare gli interventi organizzativi dai finanziamenti, rinviando quest’ultimi ad altri tempi”. Secondo entrambi, però, l’unica certezza del provvedimento è proprio “l’incertezza dei finanziamenti”.
Su questo poi non manca l’attacco diretto al ministero dell’Economia: “Ancora una volta i tecnici del Mef assumono un ruolo determinante. Rigorosi quando si tratta di sanità, forse meno attenti quando di parla di finanziare il calcio, o ripianare i debiti Telecom, o per il passato, di finanziare superbonus da oltre 100 miliardi”.
Infine, la promessa di dare battaglia: “La nostra risposta a provvedimenti punitivi o puramente cosmetici sarà dura, a partire dal rifiuto di svolgere prestazioni aggiuntive, che ricordiamo essere su base volontaria. Vorrà dire che ci limiteremo a svolgere il lavoro ordinario come definito dal Ccnl”.
L’ABOLIZIONE DEL TETTO DI SPESA PER IL PERSONALE E IL DECRETO CALABRIA
Per risolvere davvero il problema delle infinite liste di attesa concordano tutti sul fatto che bisogna aumentare il numero del personale sanitario e, dunque, assumere. Schillaci ha quindi parlato dell’abolizione del tetto di spesa per il personale sanitario a partire dal 2025, mentre per l’anno in corso le regioni potranno fare richiesta per aumentarlo dal 10 al 15%. Misura che però, osservano sia Rodriquez che Carlo Palermo, presidente nazionale di Anaao Assomed, si limita a ricalcare quanto già previsto dal decreto Calabria, approvato nel 2019.
Se sulle altre novità a insorgere sono stati manager Asl e medici che vedono ricadere su di loro ingiuste responsabilità, su questa le critiche maggiori sono state mosse, oltre che dall’opposizione, dalle regioni stesse, che accusano il governo di “assenza di concertazione”, oltre che di aver varato un decreto “astratto e privo di coperture”.
“Da un lato è evidente la volontà di esautorare le regioni dalla loro funzione di programmazione sanitaria con meccanismi di direzione e controllo del governo direttamente nei confronti delle Asl e non delle Regioni; dall’altro si spinge l’acceleratore sulla privatizzazione della sanità, sia favorendo l’attività libero professionale dei medici a scapito di un potenziamento del sistema sanitario pubblico, sia alzando il tetto di spesa per il privato accreditato senza prima assicurare un adeguato finanziamento al sistema pubblico”, ha commentato a titolo personale Raffaele Donini, coordinatore della Commissione Salute delle Regioni e Assessore alla sanità dell’Emilia-Romagna.