Quando si accetta una proposta “con riserva”, come sta accadendo con il piano per una tregua presentato da Steve Witkoff, l’inviato della Casa Bianca in Medio Oriente, è bene reagire con prudenza. Siamo al “sì, però” di Hamas, che pone le sue condizioni per avallare il piano (nel caso specifico: rilascio degli ostaggi in cinque fasi, anziché in due). Non è una posizione risolutiva. Specie quando le parti in causa fanno di tutto per sabotarlo, il piano, ognuna tirando la corda col rischio, ben previsto, di spezzarla. “Di fatto è un rifiuto”, commenta Israele sui dieci suoi cittadini e 18 corpi che sono oggetto della trattativa in questo momento.
Eppure, la sempre più drammatica situazione a Gaza sotto gli occhi del mondo dovrebbe comunque indurre i mediatori ad aggrapparsi a qualsiasi spiraglio verbale pur di porre fine alle sofferenze della popolazione palestinese e al ritorno a casa degli israeliani rapiti il 7 ottobre 2023 proprio da Hamas, e alcuni rapiti ancora in vita dopo quasi due anni.
Sono vivi non certo per pietà dei loro carnefici, ma solo per il valore “politico” che i responsabili del massacro danno alle loro prede depredate: pura merce di scambio per ottenere la liberazione di detenuti palestinesi da parte di Israele e per imbastire un negoziato che consenta a Hamas di guadagnare tempo e favore internazionale sull’onda della reazione del tutto sproporzionata – e contestata dagli stessi e sconcertati alleati di Israele – che il governo-Netanyahu continua a interpretare con l’offensiva militare a Gaza. Il suo dichiarato obiettivo è fondato e legittimo: liberare gli ostaggi e sconfiggere Hamas. Ma l’inevitabile risultato politico di quanto sta avvenendo nella realtà fa passare dalla parte del torto chi ha la ragione dalla sua. La ragione del 7 ottobre, che è la fonte originaria e da molti dimenticata del conflitto. Tuttavia, la caccia agli autori della strage non può contemplare, come accade, la morte e il ferimento di migliaia di persone del tutto innocenti quale “effetto collaterale”. Né può comportare la fame e la carestia, la devastazione del territorio e delle speranze di gente incolpevole rispetto alle colpe gravissime di Hamas.
Paesi e istituzioni in tutte le lingue, compresa quella italiana, lo stanno ripetendo da mesi al governo-Netanyahu: fermati. Lo ripetono a costo di crisi diplomatiche, come quella apertasi tra Parigi e Tel Aviv dopo che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha parlato di “dovere morale e necessità politica” di riconoscere lo Stato della Palestina. Risposta altrettanto dura di Israele: “Una crociata contro lo Stato ebraico”.
Intanto, la regione Emilia-Romagna interrompe ogni relazione istituzionale con Israele, mentre il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, annuncia che il piccolo Adam, unico bambino di dieci figli di una pediatra palestinese scampato a un raid israeliano e rimasto ferito, sarà operato l’11 giugno in Italia.
Tra sangue e polemiche, tra rigurgiti antisemiti e violenze inconcepibili a Gaza la tregua necessaria appare complicata.
(Pubblicato su L’Arena di Verona e Bresciaoggi)
www.federicoguiglia.com