La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha spiegato in Parlamento negli scorsi giorni che l’intervento sulle banche è per correggere misure decise a suo tempo dal Movimento Cinque Stelle che hanno gonfiato la redditività delle banche. Dunque si tratta solo di tornare alla normalità.
Poi, alla presentazione del nuovo libro di Bruno Vespa, Meloni ha cambiato ancora l’approccio: la tassa sulle banche non è per correggere storture inserite dai governi precedenti, ma un modo “per dare una mano”. Una specie di contributo volontario: “Se su 44 miliardi di profitti nel 2025 ce ne mettono a disposizione circa cinque per aiutare le fasce più deboli della società, credo che possiamo essere soddisfatti noi e che in fin dei conti possano esserlo anche loro”.
NUMERI A CASACCIO SU BANCHE, PROFITTI E TASSE
I bilanci 2025 delle banche non esistono ancora, dunque è difficile dire se quei 44 miliardi di euro di profitti siano un dato preciso, di sicuro non c’è scritto da nessuna parte nella legge di Bilancio che le nuove tasse sulle banche vanno ad aiutare le fasce più deboli della società.
Sono tasse, punto e basta, il gettito decide il governo come usarlo.
Ma sono tasse giuste? E, ammesso che siano giuste, nel senso ammesso che sia opportuno tassare le banche di più, sono tasse intelligenti?
Facciamo uno spoiler: non sono tasse giuste e il modo in cui sono costruite è ancora più assurdo degli ultimi due tentativi – nelle leggi di Bilancio 2023 e 2024 – che infatti hanno generato zero gettito.
E’ UNA TASSA SUGLI EXTRAPROFITTI DELLE BANCHE?
Nel chiacchiericcio da talk show e social, la tassa sulle banche viene spesso presentata come una tassa sugli “extra profitti”. Ma non lo è. Nel senso che la legge di Bilancio non fa neppure lo sforzo – che spesso si è rivelato vano in passato – di definire un extra profitto.
Semplicemente, il governo tassa di più le banche. In tre modi diversi.
Con l’articolo 20 c’è una modifica delle aliquote sui dividendi, cioè sulla remunerazione che le banche pagano ai soci. Il senso di questa norma è davvero misterioso: in pratica, se le banche distribuiscono subito una parte delle riserve accumulate e le trasformano in dividendi, ci pagano meno tasse. Se lo fanno dopo il 2028 dovranno pagare un’aliquota che sale dal 27,5 al 40 per cento.
Perché? Non si sa. Questa non è solo una tassa aggiuntiva – che dovrebbe generare 1,65 miliardi di gettito – ma è un incentivo fiscale a distribuire il prima possibile le riserve.
L’ANALISI DI LAVOCE.INFO
Come osservano Tommaso Di Tanno e Rony Hamaui su Lavoce.info, “Non si è mai visto in nessun Paese al mondo un governo indurre le banche a ridurre le proprie riserve e distribuire dividendi al più presto, aumentando così la fragilità del sistema, al solo fine di raccogliere gettito fiscale”.
All’articolo 21 c’è un aumento dell’Irap per banche e intermediari finanziari, incluse le assicurazioni, gettito atteso: 1,2 miliardi. Anche se questo è il governo che ha approvato una delega per la riforma del fisco che prevede l’abolizione dell’Irap.
Infine c’è una riduzione della deducibilità degli interessi passivi, che in pratica significa un aumento dei costi per la raccolta del denaro dai contribuenti. O, detto in altro modo, una spinta del fisco a ridurre la già scarsa remunerazione dei correntisti o degli obbligazionisti che prestano il loro denaro alle banche.
L’ultima misura è una specie di prestito forzoso non remunerato da 1,2 miliardi che il governo estorce al settore bancario.
SIAMO AL POPULISMO FISCALE?
Qual è la logica di queste misure? Sembra soltanto di consenso, quello che qualcuno chiama “populismo fiscale”. Si tassano settori impopolari per poter dire “abbiamo colpito i banchieri”.
Non c’è una logica nel tassare specificamente le banche e non c’è una logica nel disegno delle misure che possono essere scaricare sui clienti finali. Quando si mettono nuove tasse, infatti, è utile chiedersi quale sarà il gettito per lo Stato ma anche chi sarà a sopportarne davvero il costo.
Le banche non sono particolarmente redditizie in Italia. Il rendimento annualizzato del capitale e delle riserve (return on equity, ROE) delle banche italiane è salito nel 2024 al 12,8 per cento (dal 12,3 nel 2023), il livello più elevato dal 2008, come nota la Banca d’Italia nella sua relazione annuale.
Ma lo stesso indicatore – il ROE – per le 20 aziende più grandi in Borsa è stato del 15,5 per cento. Dunque, perché tassare specificamente le banche?
PERCHEì LE BANCHE SONO UN BERSAGLIO
La ragione per cui il settore del credito è un bersaglio adatto al populismo fiscale è che quel miglioramento nella sua redditività c’è stato grazie a un fattore esterno: in risposta all’inflazione, la Banca centrale europea ha aumentato il costo del denaro.
Le banche hanno adeguato il prezzo dei servizi di credito, ma non alla stessa velocità la remunerazione dei soldi che ricevono in prestito da noi depositanti. Su quella differenza hanno lucrato miliardi, prima che la Bce iniziasse a ridurre il costo del denaro.
Ma non è soltanto quello. Come osserva sempre la Banca d’Italia, “il miglioramento della redditività è ascrivibile principalmente all’incremento delle commissioni (9,5 per cento), in particolare quelle derivanti dal risparmio gestito, e in misura minore all’ulteriore aumento del margine di interesse (3,7 per cento). Il margine di intermediazione si è ampliato del 7,2 per cento”.
In pratica le banche hanno approfittato di una situazione in cui tutti i prezzi salivano per aumentare i costi imposti ai clienti e rendere il loro business più redditizio. Dunque è giusto tassarle?
Se hanno aumentato i prezzi aumentando la redditività senza conseguenze negative, significa che hanno un certo potere di mercato, come dicono gli economisti: cioè possono spremere i loro clienti senza che questi vadano altrove o rinuncino a usufruire dei loro servizi.
Un conto corrente serve a tutti, un mutuo a molti, e gli intermediari non bancari in Italia hanno vita difficile proprio per l’azione di lobby delle banche e le regole della Banca d’Italia.
Dunque, un’aggiunta di tasse che non sia abbinata a maggiore concorrenza, semplicemente spingerà le banche ad alzare ancora i costi nei confronti dei clienti. Con ulteriori aumenti delle commissioni o riduzione delle remunerazioni del denaro che affidiamo in gestione agli istituti di credito.
PERCHE’ INCENTIVARE A DISTRIBUIRE LE RISERVE COME DIVIDENDI?
Non solo: il bizzarro incentivo a distribuire subito riserve come dividendi, renderà i bilanci delle banche più piccoli, dunque le scoraggerà dall’erogare credito ai soggetti più fragili.
Qualche famiglia, insomma, si vedrà negare il mutuo e qualche impresa il finanziamento necessario a superare una difficoltà momentanea.
Senza interventi che aumentino la concorrenza e scoraggino le banche dal trasferire sui clienti finali i nuovi costi, è molto probabile che quel gettito aggiuntivo da 3,6 miliardi stimato dalla legge di Bilancio venga pagato di fatto dai contribuenti. E non dai soci delle banche (che, peraltro, sono in gran parte anch’essi contribuenti italiani, va detto).
Di ragioni per intervenire sul settore ce ne sarebbero state molte. Il processo di consolidamento di questi anni, che ha favorito la nascita di grandi gruppi al posto delle troppe banchette di territorio malgestite e usate per scopi politici, ha l’effetto collaterale di ridurre la concorrenza.
IL CASO MPS
Il governo Meloni, poi, è stato sponsor e protagonista del più importante riassetto del settore creditizio degli ultimi quindici anni, con la scalata del Monte dei Paschi di Siena a Mediobanca.
Se il governo avesse voluto tutelare le famiglie, avrebbe dovuto intervenire sulle commissioni per assicurare ai clienti trasparenza e possibilità di confrontare tra loro offerte di vari istituti.
Provate a capire quali sono davvero i costi del vostro conto corrente, della vostra carta di credito o degli investimenti che fate tramite la banca. Auguri. La mia banca ha aumentato, da un giorno all’altro, il costo dei bonifici in Italia del 20 per cento, in modo unilaterale.
Non parliamo poi delle gestioni patrimoniali e del risparmio gestito, dove i costi nascosti e le cattive sorprese sono la norma.
Ma il governo non ha alcuna voglia di aumentare la concorrenza nel settore, anche per un conflitto di interessi, visto che è tuttora il primo azionista del Monte dei Paschi di Siena.
Dunque introduce una serie di tasse che garantiscono un po’ di visibilità e danno l’impressione di decisionismo, tanto le banche troveranno il modo di scaricarle altrove.







