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Usa fuori dal planning Nato: rischio deterrenza e futuro delle basi italiane

Perché l’ipotesi è più grave di un ritiro “fisico”. L’analisi di Arnaldo Selmosson

 

Nel dibattito euro-atlantico si parla spesso di un possibile ridimensionamento della presenza militare americana in Europa come se la variabile decisiva fosse “quanti uomini e quanti mezzi” restano sul continente. Ma c’è un’ipotesi meno visibile e molto più destabilizzante: non il ritiro di asset convenzionali, bensì l’uscita degli Stati Uniti dai meccanismi di pianificazione collettiva della difesa Nato, possibilità prevista – ha scritto Reuters –  nel caso l’Europa non fosse in grado di prendere in mano la sua difesa autonomamente entro il 2027.

A richiamare l’attenzione su questo punto è Eerik-Niiles Kross, ex direttore dell’intelligence estone, oggi parlamentare, con un profilo pubblico consolidato anche in ambito europeo (tra cui incarichi e attività in sede di Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa su dossier collegati alle forze democratiche russe). La sua tesi è volutamente controintuitiva: per l’Europa sarebbe meno pericoloso un ritiro di asset fisici, purché Washington resti dentro la macchina del planning Nato, che non il contrario.

IL VINCOLO DEL CONGRESSO SULL’USCITA DALLA NATO

Va ricordato che negli Stati Uniti l’uscita formale dalla Nato è oggi politicamente e giuridicamente più complessa: una norma inserita nella legge di autorizzazione della difesa per il 2024 (Section 1250A) vieta al Presidente di ritirare gli USA dal Trattato Nord Atlantico senza l’approvazione dei due terzi del Senato o un atto del Congresso, prevedendo anche consultazioni con il Congresso stesso prima di ogni notifica formale.

Questo però non elimina il problema evidenziato da Kross: limitare l’uscita ‘formale’ non equivale a impedire un disimpegno ‘operativo’, perché ridurre la partecipazione a planning e coordinamento può produrre effetti concreti sulla deterrenza anche restando, sulla carta, dentro l’Alleanza.

CHE COS’È (DAVVERO) LA PIANIFICAZIONE NATO

La pianificazione della difesa nell’Alleanza non è un documento da tirare fuori in caso di crisi. È un processo continuo che allinea posture, scenari, catene di comando, tempi di reazione, logistica e standard tecnici. In termini concreti, è ciò che rende credibile la deterrenza perché stabilisce come le promesse politiche diventano capacità operative: chi fa cosa, dove e con quali tempi; come si usano spazio aereo, porti, basi, depositi e corridoi; quali comandi coordinano e con quali sistemi; quali standard garantiscono che le forze possano combattere insieme senza attriti paralizzanti.

Se questo meccanismo si indebolisce, l’Alleanza non “perde un pezzo di carta”: perde automatismi, prevedibilità e velocità decisionale. E in deterrenza la prevedibilità è spesso più importante del numero di mezzi fotografato in un dato momento.

IL PUNTO DI KROSS: USCIRE DAL PLANNING SIGNIFICA “NON CONTARE SU DI NOI”

Secondo Kross, se un alleato si sfila dalla pianificazione collettiva manda un messaggio operativo inequivocabile: non potete basare i vostri piani su di noi. È un segnale che riguarda non soltanto le forze disponibili, ma anche l’impiego del territorio, l’accesso alle infrastrutture, l’integrazione del comando e controllo e la logistica. Per questo, dice Kross, è perfino più rassicurante perdere asset fisici ma conservare la certezza pianificatoria, che mantenere una presenza “sulla carta” ma togliere la certezza dell’impiego in caso di crisi.

LE CONSEGUENZE REALI: QUANDO IL DOMINO PARTE, NON RESTA CONFINATO AI MILITARI

Il primo effetto è che l’integrazione militare perde valore. Se un Paese non partecipa al planning, gli altri non possono assegnargli compiti né contare su specifiche tempistiche di intervento. Di conseguenza, l’intero disegno di difesa regionale va riscritto “come se quel Paese non ci fosse”, anche se formalmente resta nell’alleanza. Questo obbliga a ripensare posture, missioni, priorità e, soprattutto, capacità da sostituire.

Il secondo effetto riguarda basi, corridoi e territorio. La pianificazione collettiva presume accesso a infrastrutture e a corridoi logistici: sorvoli, porti, aeroporti, depositi, preposizionamenti, rotte per i rinforzi. Se un attore si sfila dal planning, quelle risorse diventano meno “programmabili” e più condizionali. In termini pratici significa che, in crisi, ciò che dovrebbe essere automatico rischia di diventare negoziato.

Il terzo effetto è sulla catena di comando e controllo. Meno integrazione nelle strutture e nelle reti comuni implica meno sincronizzazione, minore rapidità di scambio dati e maggiore frizione decisionale. In un contesto di alta intensità, questo si traduce in ritardi, incomprensioni, zone grigie su responsabilità e tempi.

Il quarto effetto è l’interoperabilità. Standard, addestramento e logistica condivisa non sono “cose che esistono” una volta per tutte: sono mantenute vive da un ciclo costante di pianificazione, esercitazione e aggiornamento. Se l’integrazione si riduce, cresce il rischio che le esercitazioni diventino più formali e che le forze tornino gradualmente ad essere “straniere” le une alle altre.

Il quinto effetto è politico e di credibilità. Senza una traduzione operativa coerente, l’impegno collettivo perde automatismi e si presta a letture ambigue. E nelle alleanze, l’ambiguità non si paga solo nei comunicati, ma nelle percezioni degli avversari e nella tentazione di “testare” i confini della risposta.

IL CASO ITALIA: PERCHÉ LA QUESTIONE DELLE BASI È PIÙ SENSIBILE

Per l’Italia questo scenario non è un esercizio teorico. Il Paese ospita infrastrutture strategiche per la postura Nato e per la proiezione nel Mediterraneo: basi, hub logistici, funzioni di supporto e comandi. In una Nato pienamente integrata, queste infrastrutture sono parte di un sistema di pianificazione che ne definisce impiego, priorità e compatibilità. Se l’integrazione americana nel planning si indebolisce, ciò che cambia non è solo “quanto” gli Stati Uniti sono presenti, ma “come” quella presenza è utilizzabile dentro un piano collettivo credibile.

E qui emerge un punto decisivo: una base è deterrente se è inserita in una catena prevedibile di decisioni, tempi e flussi. Se invece l’uso di corridoi, depositi e infrastrutture diventa più incerto, l’effetto deterrente si indebolisce anche senza la chiusura fisica di un singolo sito.

ITALIA “PAESE-BASE”: QUANTE STRUTTURE E CHE TIPO DI PRESENZA

Qui l’Italia diventa un caso scuola. Secondo una ricognizione di Wired, sul territorio italiano ci sono “circa 120” strutture legate alla Nato, con gestioni diverse, e si parlerebbe inoltre di circa 20 installazioni statunitensi la cui ubicazione non è resa pubblica per ragioni di sicurezza.

La mappa non coincide con un’unica categoria: coesistono installazioni concesse agli Stati Uniti fin dagli anni Cinquanta (formalmente sotto sovranità italiana ma con controllo operativo statunitense su equipaggiamenti e attività), basi gestite direttamente dall’Alleanza, basi italiane messe a disposizione della Nato e strutture a comando condiviso tra Italia, USA e Nato.

È un ecosistema articolato, che va dai comandi e centri di comunicazione a depositi, poligoni e antenne radar: una densità che, dopo la fase di “distensione” post-Guerra fredda, è tornata centrale con la guerra d’aggressione russa su larga scala contro l’Ucraina.

CHE COSA “FANNO” DAVVERO: SIGONELLA, NAPOLI, AVIANO E GHEDI

Wired ricorda tre nodi che spiegano bene perché la pianificazione conti quanto (e più) dei numeri. Il primo è Sigonella, in Sicilia, che ospita capacità di sorveglianza e ricognizione: Wired sottolinea il ruolo della base nel monitoraggio e nell’impiego di droni di sorveglianza, mentre la Nato conferma che a Sigonella opera una componente chiave della propria architettura ISR con i velivoli RQ-4D “Phoenix”.

Il secondo è l’area di Napoli, dove insiste un livello di comando operativo dell’Alleanza: oggi la Nato descrive una struttura di Joint Force Commands che include anche Napoli (accanto ad altri comandi, come Brunssum e Norfolk), rendendo la città un punto di snodo per pianificazione e conduzione di operazioni.

Il terzo è la dimensione “nuclear sharing”, che tocca l’Italia in due sedi: Aviano e Ghedi. Su questo punto è bene essere precisi: fonti specialistiche di controllo armamenti descrivono le armi nucleari statunitensi in Europa come bombe B61 (storicamente mod 3 e 4, in modernizzazione verso la B61-12), stoccate anche in Italia; l’impiego, nell’architettura di condivisione, prevede custodia statunitense e capacità duale dei vettori dei Paesi ospitanti in uno scenario di guerra.

NON “EXTRATERRITORIALITÀ”, MA REGOLE SPECIALI E ZONE GRIGIE

Nel dibattito pubblico ricorre spesso l’idea che queste basi siano “extraterritoriali”. In realtà, la sovranità del territorio resta del Paese ospitante: ciò che cambia è lo status giuridico del personale e una serie di regole su giurisdizione, responsabilità e procedure, disciplinate dalla Nato SOFA firmata nel 1951 (poi ratificata dall’Italia).

Accanto a questa cornice multilaterale, diverse analisi ricordano anche l’esistenza di accordi bilaterali Italia–USA su infrastrutture e modalità d’uso, in parte non pubblici: un elemento che, quando si parla di “utilizzo non ordinario”, alimenta fisiologicamente discussioni politiche e richieste di trasparenza.

LE TRE DOMANDE CHE ROMA NON PUÒ EVITARE

La prima domanda è se gli Stati Uniti abbandonerebbero le basi. Non è una conseguenza automatica, e l’uscita dal planning non coincide necessariamente con una ritirata fisica. Ma anche senza chiusure, la riduzione dell’integrazione renderebbe meno prevedibile il modo in cui quelle infrastrutture verrebbero impiegate in crisi. In deterrenza, la prevedibilità vale quasi quanto la massa.

La seconda domanda è se le basi verrebbero “lasciate” all’Italia. L’idea di un passaggio di consegne lineare è spesso più narrativa che reale, perché status, funzioni e vincoli operativi dipendono da accordi, intese e scelte politiche. Inoltre, molte capacità non sono “il cemento”, ma sistemi, catene di comando, personale addestrato e procedure. “Lasciare una base” non equivale automaticamente a trasferire una capacità.

La terza domanda è se l’Italia potrebbe usarle davvero. In astratto sì, ma la premessa è che una base non è una capacità. Per assorbire funzioni oggi garantite dagli Stati Uniti servono risorse e abilitatori che richiedono tempo: personale, budget, sicurezza, comando e controllo, scorte, manutenzione, addestramento e soprattutto capacità ad alta intensità che l’Europa fatica a sostituire rapidamente. Senza questi elementi, l’Italia può ereditare infrastrutture, ma non necessariamente la funzione strategica che quelle infrastrutture svolgevano nel sistema integrato. Peraltro il dibattito sul tema in Italia non esiste, almeno a livello pubblico.

COSA CAMBIEREBBE PER L’ITALIA SE GLI USA SI SFILASSERO DAL PLANNING

Ed eccoci al punto politico-strategico: se Washington riducesse la partecipazione ai meccanismi di coordinamento e pianificazione Nato, l’Italia non dovrebbe solo chiedersi “gli americani restano o vanno via?”. Dovrebbe soprattutto fare i conti con tre incertezze operative.

La prima riguarda la pianificabilità: una base può essere piena di capacità, ma se non è integrata nei piani comuni (tempi, missioni, regole d’ingaggio, catena di comando, corridoi logistici) diventa un asset meno “contabile” nella deterrenza. E quando la deterrenza si indebolisce, aumenta la tentazione di testarla.

La seconda riguarda la gestione delle infrastrutture: l’idea che gli USA “abbandonino” e “lascino all’Italia” è più complessa di quanto sembri. Molte capacità non sono gli edifici, ma reti, autorizzazioni, procedure, software, standard, personale e interoperabilità. Senza integrazione e standard condivisi, il valore militare reale può ridursi rapidamente, anche se la struttura fisica resta.

La terza riguarda il costo dell’incertezza: per Roma, l’ambiguità è un problema in sé. Perché costringe a pianificare scenari alternativi, riallocare risorse, gestire pressioni politiche interne e, soprattutto, ridiscutere in tempi stretti equilibri che finora si reggevano su una premessa: l’affidabilità del “sistema” Nato più che del singolo contingente.

In altre parole, l’eventuale arretramento statunitense dal “planning” non cambierebbe solo i diagrammi dei comandi: cambierebbe il significato politico-operativo della presenza alleata in Italia. E quando quel significato diventa incerto, l’incertezza diventa vulnerabilità.

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