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Tutte le implicazioni dell’attacco israeliano in Qatar contro Hamas

Non solo Israele ha informato per tempo gli Stati Uniti, ma la Casa Bianca ha dato semaforo verde all'operazione. Di più: con ogni probabilità ha a sua volta avvisato i qatarioti del raid imminente. Il punto di Dario D'Angelo tratto dal suo blog

 

Credo ci sia bisogno di un punto nave per tentare di cogliere fino in fondo le implicazioni dell’attacco israeliano di questo pomeriggio in Qatar.

Partiamo da un dato enormemente simbolico. Il primo ministro israeliano, Bibi Netanyahu, ha dichiarato pochi minuti fa che i leader di Hamas sono stati colpiti esattamente nello stesso luogo in cui si riunirono per festeggiare il massacro del 7 ottobre, mentre l’attacco di Hamas era ancora in atto. Ricordate queste immagini? Fecero il giro del mondo.

Ecco, quello di oggi è insieme un cerchio che si chiude e l’inizio di un nuovo capitolo per il Medio Oriente.

Primo punto: certo che è importante conoscere l’esito dei bombardamenti. Dieci jet da combattimento israeliani non si sono scomodati per niente. Sapere se Khalil al-Hayya e Khaled Meshal sono vivi o morti farà differenza. Hamas continua a sostenere che gran parte dei leader presenti è riuscita a sopravvivere all’attacco; Israele nutre invece “crescente ottimismo” sul fatto che gli obiettivi del raid siano stati raggiunti. Vedremo chi sta bluffando. Ma anche Israele avesse mancato completamente il bersaglio, non cambierebbe di un millimetro la vera notizia di oggi: per i terroristi di Hamas non esiste più luogo di sicuro, angolo di mondo in cui pensarsi al riparo dalla vendetta israeliana. Yahya Sinwar è stato ucciso a Gaza. Ismail Haniyeh in Iran. Hassan Nasrallah a Beirut. Oggi il Qatar si aggiunge all’elenco. È un messaggio che riecheggia in queste ore in tutto il Medio Oriente: il 7 ottobre Hamas ha fatto saltare le regole. E adesso Israele le sta riscrivendo.

Secondo punto: attenzione a ciò che si dice pubblicamente e a quanto accade invece dietro le quinte. Un attacco contro il Qatar, un Paese amico degli Stati Uniti, è un passo troppo grande – sì, anche per Israele – perché possa essere stato compiuto senza un coordinamento con Washington. Fonti di Hamas, subito dopo il raid, hanno puntato il dito proprio contro l’amministrazione Trump, accusata di aver teso una “trappola” nei confronti della leadership di Hamas. Secondo questa versione, la nuova proposta di tregua presentata dagli USA sarebbe stata di fatto un’esca, il motivo scatenante per porre in essere una riedizione delle “Nozze Rosse” riservate alla leadership militare iraniana nella Guerra dei 12 Giorni. Anche questo è un dettaglio interessante, a maggior ragione per chi – come noi – ama i retroscena, ma non è il nodo principale della questione.

Per arrivare al dunque occorre infatti dare un’occhiata agli appunti sul taccuino qui accanto. E in particolare all’ordine in cui sono stati scritti:

1) Attacco israeliano in Qatar.
2) Bibi Netanyahu rivendica la paternità dell’azione: “È stata un’operazione israeliana completamente indipendente. È stata avviata da Israele, condotta da Israele e Israele se ne assume la piena responsabilità”.
3) Gli Stati Uniti lasciano filtrare di essere stati informati da Israele, ma troppo tardi, quando già non era più possibile invertire il corso degli eventi.

Siamo chiaramente dinanzi a una finzione. Non solo Israele ha informato per tempo gli Stati Uniti, ma la Casa Bianca ha dato semaforo verde all’operazione. Di più: con ogni probabilità ha a sua volta avvisato i qatarioti del raid imminente.

Nelle prossime ore mi aspetto un’ulteriore presa di distanze da parte di Washington, né escludo toni aspri – magari da parte dello stesso Trump. Subito dopo gli americani tenteranno di chiarire, anzitutto al Qatar, uno dei sottintesi di questo strike: la vostra mediazione si è rivelata inefficace (se non dannosa), in assenza di un accordo di cessate il fuoco e liberazione degli ostaggi i vecchi schemi sono da considerarsi saltati.

Terzo e ultimo punto: molti leader europei stanno condannando l’azione israeliana. Perché? Questioni di etichetta, di galateo istituzionale, di copioni da interpretare. Il ruolo che ci siamo scelti negli ultimi anni impone di condannare l’azione israeliana. Non è necessariamente sbagliato, anche da un punto di vista pragmatico: il sistema basato sulle regole è l’unico che può preservare la nostra sicurezza (non siamo né abbastanza forti né così spregiudicati da muoverci in un mondo senza guardrail). Ma allo stesso tempo bisogna riconoscere un fatto: un Paese che dà ospitalità a leader terroristi che un giorno sì e l’altro pure minacciano la distruzione di Israele, non può dirsi sorpreso se a due anni dal 7 ottobre – due anni senza il ritorno a casa degli ostaggi – dallo Stato ebraico oggi arrivino schiaffi e non carezze.

(Estratto dal blog di Dario D’Angelo)

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