Mattia Ferraresi è un giornalista, firma di Domani, che era corrispondente da New York per il Foglio negli anni della guerra al terrorismo dopo l’attacco di Al Qaeda l’11 settembre del 2001
Cosa è rimasto nella memoria collettiva americana della stagione della “esportazione della democrazia”, dei neoconservatori e dell’approccio alla politica estera dei tempi di George W. Bush, dell’Iraq e dell’Afghanistan?
Le ferite sociali e psicologiche della stagione delle guerre in Afghanistan e in Iraq non sono visibili come quelle che avevano caratterizzato la guerra del Vietnam, ma l’impatto che hanno avuto è certamente molto profondo, soprattutto dal punto di vista delle élite, e in particolare dell’élite repubblicana.
Sono state esperienze profondamente traumatiche, dal punto di vista emotivo, e hanno generato una forte disillusione, soprattutto per quello che un tempo si chiamava il “Washington Consensus”, cioè quel consenso creato tra internazionalisti liberal di sinistra e conservatori o neoconservatori con una forte missione civilizzatrice, che in quella fase trovarono una sostanziale convergenza nel promuovere e difendere quegli interventi militari.
Quest’élite, traumatizzata da queste guerre, oggi è quella che anagraficamente governa il Paese e le istituzioni fondamentali.
A rappresentare in modo emblematico questa disillusione, anche dal punto di vista biografico, è chiaramente il Vice Presidente J.D. Vance, il primo a quel livello di governo ad aver partecipato alla guerra in Iraq.
Trump è stato eletto per mettere fine una volta per tutte alle “forever wars”, ha costruito molto del suo nuovo personaggio come presidente pacifista, come si spiega questo completo ribaltamento?
Io credo che questo ribaltamento possa spiegarsi soltanto inquadrando il personaggio Trump. Trump è un uomo d’improvvisazione e, se mi permetti questa sorta di analogia, è un reattore, non un attore: un leader caratterizzato dalla sua capacità reattiva.
Ci sono alcune linee, alcuni grandi temi, alcune parole d’ordine che sono rimaste nel tempo, e certamente quella dell’isolazionismo e del disimpegno dalle azioni e dagli interventi militari all’estero, e dal ruolo dell’America come gendarme, pacificatore o civilizzatore del mondo, era probabilmente il tema più persistente in tutto il continuo cambiamento che caratterizza il personaggio Trump.
Allo stesso tempo, credo che questi mesi ci indichino che questa sua caratteristica sia assolutamente divagante, imprevedibile e, in fondo, segno di debolezza.
Penso infatti che Trump sia più caratterizzato dall’azione di altri attori che provocano in lui delle reazioni, per noi osservatori difficilmente comprensibili; questo tratto ha un po’ preso il sopravvento ed è diventato dominante.
Io me lo spiego soltanto così questo ribaltamento della prospettiva.
Nella composita coalizione sociale e culturale che sta dietro alla seconda amministrazione Trump, quali sono le componenti che sostengono ancora il legame fortissimo con Israele anche al di là delle preferenze personali del presidente che ha rapporti molto freddi con Netanyahu?
Un grande mondo evangelico, la cosiddetta destra religiosa evangelica, è fondamentale per capire i legami fortissimi con Israele. Gli evangelici sono un blocco composito, ma hanno sostenuto Trump con forza in entrambe le elezioni che è riuscito a vincere.
Sono una componente fondamentale del patchwork elettorale che ha permesso a Trump di essere rieletto nel 2024: una sorta di spina dorsale del suo mondo.
Bisogna tenere conto che la componente evangelica è animata da ragioni teologiche nel sostegno a Israele, motivazioni che si inseriscono anche nello sfondo del compimento delle profezie, quindi in una prospettiva anche apocalittica.
Il rappresentante chiave di questo mondo è Mike Huckabee che, non a caso, è stato nominato ambasciatore degli Stati Uniti presso Israele.
C’è un flusso di denaro e di sostegno enorme che va verso Israele non tanto e non solo dagli ebrei americani, ma soprattutto dagli evangelici cristiani. L’associazione più famosa di sostegno a Israele, Christian United for Israel, conta circa 10 milioni di membri negli Stati Uniti: sostengono, finanziano, appoggiano e fanno pressione su Washington affinché la causa di Israele sia garantita e sostenuta in modo inamovibile.
Cambiare regime, poi, è sempre un salto nel vuoto. C’è un’espressione in inglese che consiglia di preferire il diavolo che conosci a quello che non conosci. Perché chi arriva dopo i tiranni può essere anche peggio.