Fibrillazioni fra banche e governo in vista della manovra.
CHE COSA STA STUDIANDO IL GOVERNO SULLE BANCHE
Secondo il Sole 24 ore di oggi, l’esecutivo scompagina le carte del negoziato con i vertici dell’Associazione bancaria e mette sul tavolo la prospettiva di una tassazione che comporti un pagamento una tantum che non verrà restituito. Una nuova ipotesi di lavoro che dovrebbe camminare di pari passo con l’anticipo di liquidità derivante dal rinvio delle deduzioni per il 2026 e il 2027 (Dta e simili). Il combinato delle due misure dovrebbe garantire, nelle attese del governo, un incasso complessivo di almeno 4 miliardi se non superiore.
LE IPOTESI DI TASSAZIONE DELLE BANCHE
“La tassazione prospettata è relativa alla quota di utili accantonata nel 2023 a patrimonio, accantonamenti fatti per evitare di pagare un’imposta del 40 per cento: l’importo di quelle risorse destinate a rafforzare i requisiti patrimoniali complessivamente è pari a 6,2 miliardi – ha scritto il Sole 24 ore – La proposta che l’esecutivo ha messo sul tavolo dopo il vertice di maggioranza di domenica sera è quella di procedere a un affrancamento delle somme accantonate – quindi la loro liberazione e la possibilità che siano distribuite come dividendi – pagando un’imposizione ridotta rispetto al 40 per cento e pari al 27,5 per cento. In tal caso il gettito che potrebbe entrare nelle casse dello Stato è di 1,7 miliardi. La percentuale potrebbe cambiare ed essere oggetto di negoziato: se si partisse dal 30% l’incasso sarebbe di 1,86 miliardi. L’affrancamento non sarebbe su base volontaria: il governo avrebbe manifestato l’intenzione di introdurre un’imposizione sui dividendi futuri (che scatta in caso di mancato affrancamento) ritenendo che una parte di quelle riserve venga distribuita”.
L’APPROFONDIMENTO DEL SOLE 24 ORE
Secondo il Sole 24 ore, l’ulteriore vantaggio per lo Stato, qualora i 4,5 miliardi residui dopo l’affrancamento fossero interamente distribuiti, sarebbe l’introito dell’imposizione sui dividendi, pari al 26%: 1,17 miliardi l’incasso che ne deriverebbe (1,1 miliardi in caso di imposta al 30%). Accanto a questa soluzione l’esecutivo sarebbe comunque interessato anche all’anticipo della liquidità. Come detto, l’importo desiderato è molto elevato. Gli istituti di credito avevano avanzato la possibilità di un ulteriore strumento oltre al rinvio delle deduzioni (Dta e simili): e cioè lo spostamento di due anni della scadenza per dei crediti d’imposta sui bonus edilizi del 2021, che alcune banche ancora detengono e che non possono vendere perché il mercato è stato bloccato.
LE STIME
Tra Dta per il periodo 2026-27 e i crediti di imposta i proventi da liquidità sarebbero stati ben superiori a 4 miliardi. Ma il governo non vuole sentir parlare di interventi sui crediti di imposta. Da qui l’impianto dell’affrancamento: tra rinvio delle Dta e affrancamento il gettito sarebbe attorno a 3,7 miliardi, che porterebbe il gettito a ben oltre 4 miliardi se si tiene conto anche dell’imposta sui dividendi.
IL COMMENTO DI SILEONI (FABI)
«È vero che le banche hanno guadagnato di più, per tutta una serie di motivi, principalmente legati alla politica dei tassi decisa negli anni passati dalla Banca centrale europea. Conoscendo la sensibilità di questa generazione di amministratori delegati delle banche, sono convinto che ci siano spazi per una soluzione condivisa col governo: un accordo positivo per tutti, fondamentale per la crescita economica del Paese» ha detto il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni. Il punto di partenza delle banche, ha aggiunto, è che loro «hanno già dato e un minimo di ragione ce l’hanno. Perché rispetto all’Ires e all’Irap pagano, rispettivamente, un 3,5% in più e uno 0,75% in più, se confrontato con le aliquote delle altre imprese. E poi, sugli utili, azionisti e piccoli soci pagano il 26 per cento. Nel 2026 dovrebbero essere distribuiti dividendi tra 15 e 16 miliardi di euro, relativi a quest’anno, con un gettito per lo Stato di circa 4 miliardi».
COSA SUCCESSE NEL 2023
Ma cosa successe 2 anni fa tra governo e banche? Anche nel 2023, durante la preparazione della manovra sui conti pubblici del 2024, la questione della tassa sugli extraprofitti delle banche è divenuta uno dei temi più controversi nel rapporto tra Stato e sistema bancario. Un provvedimento, introdotto ad agosto dello stesso anno, nasceva con l’obiettivo dichiarato di prelevare una parte degli utili eccezionali generati dalle banche a seguito del forte rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Banca centrale europea. Il Governo, attraverso un’iniziativa fortemente voluta dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, l’aveva presentata come una misura di “equità sociale”, stimando un gettito complessivo per l’erario compreso tra 2,5 e 3 miliardi di euro. L’intento politico era chiaro: restituire ai cittadini, almeno in parte, i benefici di un aumento dei margini di interesse che aveva favorito il sistema bancario più di ogni altro settore economico.
TASSA SUGLI EXTRAPROFITTI: DALLA TEORIA ALLA REALTA’
La realtà, tuttavia, si è rivelata profondamente diversa, secondo il giudizio unanime degli analisti. La norma, infatti, è stata corretta in corsa con una clausola alternativa che consentiva agli istituti di credito di non versare l’imposta, a condizione di destinare un importo pari a 2,5 volte il valore della tassa a una riserva patrimoniale non distribuibile. Questa opzione, pensata come strumento per non penalizzare la solidità dei bilanci bancari, si è trasformata in una via di fuga pressoché unanime. Tutte le principali banche italiane – da Intesa Sanpaolo a UniCredit, da Banco BPM a Monte dei Paschi di Siena, da Bper a Popolare di Sondrio, fino a Credem e Mediobanca – hanno scelto di rafforzare il proprio patrimonio invece di pagare l’imposta. Il risultato è stato un risparmio fiscale complessivo di circa 1,8 miliardi di euro e un incremento delle riserve patrimoniali per oltre 4,5 miliardi.
I MANCATI INCASSI PER LO STATO
Il mancato incasso per lo Stato, di conseguenza, è stato notevole: un buco superiore ai due miliardi di euro rispetto alle previsioni iniziali. E non si tratta solo delle grandi banche quotate. Anche Crédit Agricole Italia, con un beneficio stimato di circa 90 milioni di euro, Bnl e l’intero sistema del credito cooperativo hanno preferito non intaccare la propria liquidità per contribuire al gettito fiscale. Si è dunque determinata una situazione paradossale: una misura nata per drenare risorse verso il bilancio pubblico si è tradotta in un rafforzamento patrimoniale del sistema bancario e in un sostanziale azzeramento del gettito.
IL CONTESTO
Il contesto normativo dell’intervento fu emblematico. Il decreto di agosto, approvato dal Consiglio dei ministri e presentato in conferenza stampa da Salvini come un gesto di “giustizia sociale”, aveva sorpreso i mercati finanziari, generando nell’immediato una reazione violenta. Nella sola giornata successiva all’annuncio, il comparto bancario in Borsa perse circa dieci miliardi di euro di capitalizzazione. Gli investitori internazionali manifestarono irritazione, i vertici delle principali banche espressero forte contrarietà e la stessa Banca Centrale Europea intervenne con toni critici, segnalando che un prelievo straordinario di tale portata avrebbe potuto indebolire la capacità creditizia degli istituti e, in ultima analisi, danneggiare la stabilità finanziaria complessiva.
GLI EFFETTI ECONOMICI
Sul piano economico, gli effetti concreti sono stati diametralmente opposti rispetto alle intenzioni iniziali. Per lo Stato, la misura non ha prodotto entrate rilevanti, comportando invece una perdita di gettito stimata in oltre due miliardi. Per le banche, al contrario, il provvedimento si è tradotto in un rafforzamento patrimoniale che ha migliorato i coefficienti di solidità (CET1) e la capacità di sostenere nuove erogazioni di credito. Il sistema bancario, anziché subire una contrazione, ha quindi potuto presentarsi con bilanci più robusti, mentre l’impatto redistributivo sull’economia reale è rimasto nullo. Nessuna risorsa aggiuntiva è confluita nel bilancio dello Stato, e nessun effetto tangibile si è registrato sul fronte del sostegno alle famiglie o alle imprese.
IL VINCOLO NASCOSTO
La clausola più tecnica – ma anche più significativa – della tassa sugli extraprofitti bancari introdotta nel 2023 riguarda la tassazione differita sugli utili distribuiti, un meccanismo che rende solo temporanea l’esenzione concessa alle banche che hanno scelto di accantonare gli utili a riserva. Con la legge 9 ottobre 2023, n. 136 (che ha convertito il decreto “Asset”, D.L. 104/2023), il Parlamento ha riscritto la norma originaria, inserendo all’articolo 26, comma 5-bis, una disposizione chiara: le banche che decidono di non versare l’imposta immediatamente possono evitarla solo accantonando in bilancio una “riserva non distribuibile” pari ad almeno 2,5 volte l’importo della tassa.
Questa riserva, però, non può essere utilizzata per remunerare gli azionisti finché resta vincolata. Se, anche a distanza di anni, la banca decidesse di “sbloccarla” per distribuire dividendi o trasformarla in altra riserva disponibile, scatterebbe automaticamente il pagamento integrale dell’imposta straordinaria, maggiorata degli interessi calcolati al tasso sui depositi della Banca centrale europea, conteggiati pro rata temporis. In sostanza, il legislatore ha introdotto una forma di “tassazione sospesa”, legata al comportamento futuro delle banche. Chi decide di trattenere gli utili nel patrimonio aziendale beneficia subito dell’esenzione, ma chi li trasforma in cedole o buyback dovrà restituire allo Stato quanto dovuto, maggiorato degli interessi maturati nel frattempo.
Dal punto di vista economico, la clausola mira a disincentivare la distribuzione degli extraprofitti e a spingere gli istituti a rafforzare il capitale. Ma nei fatti rappresenta una sorta di tassa latente: una trappola temporale che si attiva solo se la banca decide di erogare dividendi. L’effetto è duplice. Da un lato, le banche che non intendono distribuire utili immediatamente ottengono un vantaggio patrimoniale; dall’altro, quelle che vorranno remunerare i soci in futuro dovranno fare i conti con un costo fiscale differito ma certo, indicizzato ai tassi della BCE. La norma, nella sua versione definitiva, ha così trasformato la tassa sugli extraprofitti da imposta immediata e punitiva a prelievo condizionato e potenzialmente differito nel tempo, spostando il baricentro dal gettito statale alla stabilità patrimoniale del sistema bancario.