L’operazione di Monte dei Paschi di Siena su Mediobanca si è conclusa positivamente per Rocca Salimbeni. In questi giorni ci sarà tempo per salire ancora nella quota delle adesioni, che ormai puntano alla soglia dell’80%. Per valutare l’opas, ma anche per capirne prospettive, ruoli e scenari futuri, StartMag ne ha parlato con Angelo De Mattia, analista economico, editorialista (in particolare di Mf/Milano Finanza) e già ai vertici della Banca d’Italia quando era governata da Antonio Fazio.
Secondo lei ci sarà una fusione ufficiale tra Mediobanca e Monte dei Paschi?
Tutto dipenderà dall’esito finale dell’Opas. Se le adesioni saranno così ampie da richiedere l’opa residuale o no. Con la possibilità del delisting dalla borsa. Se invece non si raggiungerà quella soglia, ci sono opzioni alternative – tecnicamente e giuridicamente – e bisognerà compiere una scelta. La fusione pura è semplice è una possibilità, ma non l’unica: si può immaginare anche un periodo in cui Mediobanca mantiene la propria autonomia, oppure una soluzione intermedia, come accadde con Intesa e l’IMI, cioè Mediobanca diventa una struttura di rilievo partecipata totalmente da Mps, formalmente distinta ma integrata nella strategia complessiva. Bisognerà stabilire quale sia quella considerata preferibile dalla banca con la partecipazione maggioritaria o totalitaria, e quale sia l’opzione che meglio risponde ai fini complessivi di questo rapporto tra Mps e Mediobanca per quello che riguarda il mercato, il finanziamento di famiglie e imprese, il valore per gli azionisti.
In ogni caso l’operazione la considera positiva?
Assolutamente sì. La ritengo un passo avanti, non un arretramento. In fondo Mediobanca nasce così: negli anni Quaranta, per volontà di Raffaele Mattioli, come banca “della Comit e per la Comit”. Poi muovendo i primi passi si è evoluta. Già nel 1946 ottenne un regime speciale, grazie a un decreto, che consentiva alle banche costituite sotto forma di spa di operare sia nel breve sia nel medio-lungo termine, a differenza di quanto prevedeva la legge bancaria del ’36. Mediobanca sfruttò questo aspetto, le diede un vantaggio enorme, che la rese un soggetto quasi monopolista per decenni, fino al 1993, quando con il Testo Unico bancario si aprì la stagione della banca universale. Da allora Mediobanca ha perso quell’unicità, ma il segno che aveva lasciato era già profondo.
Molti osservatori parlano della “fine di un’epoca”. È davvero così?
È la conclusione di una fase, questo è certo. Ma non lo considero un evento negativo. Anzi, rappresenta un tassello nel processo di consolidamento del sistema bancario italiano, che era stato annunciato da tempo. Mediobanca ha avuto un ruolo peculiare, soprattutto sotto la guida di grandissima levatura di Enrico Cuccia. lì nascono le espressioni del “Salotto Buono”, le dichiarazioni di Cuccia come quella del “le azioni si pesano e non si contano”, i patti di sindacato, la centralità nel rapporto con le Generali. Cuccia fu una figura di straordinaria competenza e autorevolezza, ma la sua influenza fu resa possibile anche dalle condizioni normative che ho citato. Negli anni Novanta, con la globalizzazione, l’apertura dei mercati e la fine delle partecipazioni incrociate, quel modello non era più sostenibile.
Come cambierà Mediobanca con Mps?
È la conclusione di una fase, questo è certo, ma non in senso negativo. Rappresenta piuttosto un nuovo passo nel consolidamento bancario, che era stato annunciato da tempo. Mediobanca ha avuto per decenni un ruolo peculiare, in gran parte grazie alla figura di grandissima levatura di Enrico Cuccia, ma anche per via della sua collocazione istituzionale. Le tre grandi BIN (banche di interesse nazionale) — Banca di Roma, Credito Italiano e Comit — raccoglievano risparmio a costi molto bassi e lo convogliavano verso Mediobanca, garantendole una posizione di vantaggio che nessun’altra istituzione riusciva a contrastare. A questa condizione si aggiungeva il patto di sindacato, svelato negli anni ’80 dall’allora ministro Gianni De Michelis. In base a quel patto, pur avendo la parte pubblica oltre il 50% delle partecipazioni, l’amministrazione era affidata ai privati che avevano poco più del 6%. Una situazione paradossale, che però fu tollerata e accettata perché funzionale a mantenere un equilibrio di potere nel sistema finanziario italiano. Questo mix di fattori normativi, privilegi regolatori e rapporti con le Generali — che Cuccia definiva “la pupilla dell’occhio”, visto che da lì proveniva fino al 40% degli utili — rese Mediobanca per decenni un unicum in Italia. Ma dagli anni ’90 in avanti, con la globalizzazione, la fine delle partecipazioni incrociate e l’ingresso della banca universale, quel modello non era più replicabile.
E come giudica la Mediobanca degli ultimi anni?
Ha provato ad adattarsi alle nuove sfide, per esempio con l’espansione nel credito al consumo. Non è stata un’evoluzione banale, perché significava passare da un ruolo quasi elitario a un’attività più vicina al grande pubblico. Ma è mancato ciò che Cuccia incarnava: la capacità di coniugare competenza tecnica e visione strategica, costruendo consenso attorno a scelte decisive.
A proposito di leadership: come valuta l’operato di Alberto Nagel?
Nagel è una persona competente e capace, con un’ottima conoscenza dei mercati europei e internazionali. Quello che manca, a mio parere, è una capacità strategica, da banchiere classico, come i grandi banchieri che hanno caratterizzato la storia della banca in Italia.
Passiamo al governo. Qual è stato il ruolo del ministero di Giorgetti? Sarà una tendenza in crescita quello dell’intervento dello Stato in situazioni simili, che si lega anche alla questione golden power su Unicredit-Banco Bpm?
Pur non essendo un sostenitore della linea del ministro dell’Economia, Giorgetti ha tenuto fede su qualcosa che lui aveva annunciato. Sin dall’ingresso del Mef in Mps si era detto che quella partecipazione sarebbe servita a facilitare un’operazione di consolidamento del sistema bancario. E oggi vediamo che un passo è stato compiuto. Quanto al Golden Power, va considerato per ciò che è: uno strumento eccezionale, utile in contesti specifici – come nel caso Unicredit e la sua esposizione in Russia – ma non una regola. Sulla presenza pubblica nelle banche va chiarito: le norme europee non la vietano. L’importante è che pubblico e privato operino su un piano di parità, senza vantaggi competitivi indebiti. Poi si può dare un giudizio rispetto alle possibilità alternative. Non è il caso di Mps, intervento determinato da una ricapitalizzazione necessaria, ma in futuro si potrà sempre valutare l’investimento in una banca, cioè dove va orientata la spesa pubblica. Ma non è un problema normativo, ma di scelte che possono essere compiute.
E sul Monte dei Paschi, possiamo dire che il risanamento sia compiuto?
Direi di sì. La ricapitalizzazione precauzionale è stata essenziale, ma non sufficiente. Ad essa si sono affiancati un piano di esodi agevolati per 4.000 dipendenti e la nomina di un amministratore delegato che ha agito finora molto efficacemente, con grande capacità, che ha saputo valorizzare esperienze maturate altrove. Tutto questo ha riportato Mps su un percorso di stabilità, che ripeto – ricordando sempre come nasce Mediobanca, “della Comit e per la Comit” – reputo positivo.
In quest’operazione hanno avuto un ruolo anche soggetti privati forti, come Delfin e il gruppo Caltagirone. Come valuta questa presenza?
Non la vedo come un problema. Se vengono rispettate le regole, la partecipazione dei privati è del tutto legittima. Oggi vengono improvvisamente agitati problemi di questo tipo, per esempio da persone che mai avevano posto problemi simili per il passato azionariato di Mediobanca, dove i privati avevano un loro ruolo. In passato i privati dominavano: basti pensare al patto di sindacato che, con una quota minima, garantiva loro il controllo di Mediobanca a fronte di una maggioranza pubblica. Oggi la vigilanza europea ha autorizzato l’operazione: ciò significa che finora non ci sono criticità né dal punto di vista normativo né di stabilità. La vera questione è come la banca saprà esercitare il credito, sostenere famiglie e imprese, rispondere alle sfide tecnologiche e internazionali, a partire dall’intelligenza artificiale. È lì che si misurerà il successo.
Quindi il vero giudizio arriverà solo col tempo?
Esattamente. Non sulla legittimità, che è stata verificata, ma sulla capacità della nuova entità di generare valore. Se saprà essere propulsiva per l’economia, allora l’operazione sarà stata non solo corretta, ma anche lungimirante. Altrimenti resterà una fusione come tante.