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Che cosa c’è in Giudizio Universale di Nuzzi sulle finanze del Vaticano

Il rischio default per la Santa Sede. La questione dell'Obolo di San Pietro. I dossier sui conti dell'Apsa e non solo. Numeri e critiche di Gianluigi Nuzzi in "Giudizio Universale" (Chiarelettere) e il ruolo dei bergogliani nel caos finanziario vaticano. Il libro di Nuzzi uscito oggi letto e commentato da Andrea Mainardi

 

Di “deficit ricorrente e strutturale” che ha raggiunto “livelli preoccupanti e rischia di condurre al default” la Santa Sede ne scriveva in un allarmato documento del Consiglio per l’economia della primavera 2018. È una delle carte pubblicate da Gianluigi Nuzzi, in Giudizio Universale (Chiarelettere) uscito lunedì 21 ottobre.

Non c’è tempo da perdere. Joseph Zahra, che di quel Consiglio è vice coordinatore, indicava ai cardinali un piano di sviluppo economico di cinque-sette anni. Altrimenti è crollo. Un rischio di reputazione. Soprattutto: un danno per l’evangelizzazione e le opere di carità in tutto il mondo.

Angelo Becciu, fino a un anno e mezzo fa Sostituto in Segreteria di Stato, confida a Nuzzi che solo il 10-15 per cento dell’Obolo di San Pietro finisce in beneficenza. Che poi l’Obolo non serva solo alla carità, ma anche al mantenimento delle strutture ecclesiastiche, è noto e pubblicamente illustrato. Che le offerte siano in calo anche. Che i patrimoni vengano amministrati male è oggetto della radiografia di Giudizio universale.

Si tratta di un mix di offerte da diocesi, fondazioni e fedeli che collaborano al governo centrale della Chiesa. Nel 2014, degli 83 milioni raccolti, 43 arrivavano dalle diocesi, 19 dalle fondazioni, 15 dai privati. Ma il contributo si sta erodendo. Stando al 2014: – 21% dall’Italia, – 32 dalla Germania, -38,9 dal Venezuela. Sorpresa dagli Stati Uniti: il segno negativo è del 5,33%. Importante, certo; ma forse è un segno meno non così critico che invita a rivedere con meno clamore la narrazione di una presunta fronda americana anti-Francesco?

Al di là degli interrogativi sulle dinamiche intra-ecclesiali, quel che emerge dal volume di Nuzzi è comunque il persistere di zone d’ombra. A cominciare da un cospicuo gruppo di depositi nell’Apsa su cui urge un chiarimento. Tra l’altro, negli uffici dell’amministrazione di un patrimonio immobiliare sterminato neppure si avrebbe un censimento completo delle proprietà, come ammette al giornalista l’ex presidente Apsa, il cardinale Domenico Calcagno.

L’instantanea sul deficit al 2018 è un bollettino di guerra. Il budget 2019 mostra un aumento di 63,3 milioni che fa “schizzare il deficit netto dai 32 milioni del consuntivo 2017 ai 95,3 del budget 2019 con un aumento del 197,8 per cento”. Pesano: costo del personale (+ 5,4 milioni); spese operative (+17 milioni), dovute soprattutto al mantenimento delle nunziature nei cinque continenti; investimenti capitalizzati (+20,8 milioni), di nuovo, in particolare per spese diplomatiche, per l’acquisto di sedi delle ambasciate. Intanto scendono i contributi da Ior e Governatorato (-11,5 milioni) e minori sono i risultati finanziari (-6,8 milioni).

Male, malissimo il bilancio consolidato 2018. Perdita di 43,9 milioni, “in peggioramento di oltre 10 milioni rispetto al 2017”. Come ricorda Nuzzi: “Vuol dire perdere 120mila euro al giorno”. Insomma: nel 2018 sono peggiorate sia “la gestione operativa, aumentando la perdita, sia quella finanziaria, riducendo l’utile”. A registrare i deficit più importanti: Segreteria di Stato e Apsa.

Sullo sfondo, perché poco noto ma in realtà cruciale e in queste settimane all’attenzione delle cronache per un’inchiesta interna che sta squassando la cittadella di Pietro, resta l’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. “Una terza banca”, che affianca Apsa e Ior. Una banca non banca che ha in pancia – è emerso nei giorni scorsi – qualcosa come 650 milioni di euro e che, riportano fonti a Nuzzi, Giovanni Paolo II nei primi anni di pontificato neppure sapeva esistesse. Tanto da doverne chiederne conto ai collaboratori.

Già un mese fa il Wall Street Journal aveva scritto di un disavanzo della Santa Sede raddoppiato nel 2018. Ma la fotografia della crisi fornita dal giornalista milanese è ancora più preoccupante. L’Apsa – che del Vaticano è la banca centrale – per la prima volta nella sua storia ha conti in rosso: risultato operativo meno 27 per cento, risultato finanziario meno 67, gestione meno 56. Perché?

Per Nuzzi, le ragioni sono da cercarsi in una gestione clientelare, una ragnatela di mancanza di regole, contabilità fantasma, abusi e sabotaggio nei confronti delle riforme volute da Francesco. Il pontefice ha chiesto al cardinale tedesco Reinhard Marx di coordinare un lavoro di studio per mettere a punto tutte le misure necessarie a salvaguardare il futuro economico della Santa Sede. A libro probabilmente già diretto alla stampa, il 20 settembre scorso il Vaticano ha pubblicamente ammesso la preoccupante situazione economica. Si è dato conto di un incontro tra i capi dei dicasteri e delle istituzioni dello Stato e della Curia per discutere le contromosse. Si annuncia la pubblicazione del bilancio entro questo autunno. Ed è atteso: cifre ufficiali non ne escono dal 2015.

Se si segue con attenzione Nuzzi mentre snocciola cifre e conti da documenti interni, come quando illustra resistenze e lotte di potere, si fatica in certi passaggi a percorrerne l’analisi di una “battaglia finale di Papa Francesco per salvare la Chiesa dal fallimento”. A parte pochi nomi della vecchia guardia curiale, i vertici – anche, specialmente economici, in uno dei punti indicati come cruciali nel processo di riforme messe in campo dal Papa argentino – sono tutti di sua nomina. Per brevità, si può affermare – con sintesi non esatta – che sono tutti bergogliani.

E allora restano misteriosi, numerosi, stop and go. Le domande si affollano. Una su tutte: perché il Papa ha accettato le dimissioni del Revisore Generale Libero Milone, che lui stesso aveva chiamato in Vaticano? Era stato informato che quelle dimissioni erano state imposte a Milone perché stava probabilmente setacciando troppo su quelle zone d’ombra economico-finanziarie che il sottobosco della piccola città sembra coltivare? Perché in due anni ha lasciato il ruolo apicale vacante, affidandone la conduzione al vice di Milone?

Perché ancora rimane vacante la posizione di prefetto della Segreteria per l’Economia che era dell’australiano George Pell. Cardinale che ha rinunciato a tutte le garanzie dell’immunità diplomatica per tornare in patria a difendersi da accuse di pedofilia risalenti a decenni prima, proprio mentre con modi anglosassoni e per nulla curiali stava investigando nei rivoli dei conti e degli investimenti vaticani? E tanto altro. Come l’ultima vicenda che ha travolto l’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato e rischia di minare la credibilità internazionale dell’Aif, l’autorità antiriciclaggio vaticana.

Come il problema non sono gli oppositori (reali o presunti) al pontificato di Bergoglio, ancora più la questione non è di difetto di governo di Francesco.

Il Papa si è affidato al cardinale Marx. È pastore dell’arcidiocesi di Monaco di Baviera, tra le più ricche al mondo. La più ricca di Germania. I fedeli lasciano i banchi delle chiese vuote, ma i denari della tassa ecclesiastica – la Kirchensteuer – obbligatoria per legge per tutti coloro che sono registrati come appartenenti alla Chiesa cattolica o alle Chiese protestanti – non conoscono crisi. In tutta la Germania, nel 2018 oltre 200mila fedeli hanno lasciato. Un’emorragia del più 29% rispetto all’anno precedente. Il patrimonio totale dell’arcivescovado di Monaco, invece, ammonta a circa 3,449 miliardi di euro. Al 31 dicembre 2018 è aumentato di 125 milioni di euro. La diocesi dà lavoro. Stando alle statistiche ufficiali, circa 16mila uomini e donne sono a libro paga dell’Arcidiocesi e altri 20mila dipendenti lavorano per la Caritas e le associazioni affiliate. A servizio di un’arcidiocesi di 3milioni e mezzo di abitanti per un milione e mezzo di battezzati.

Più volte il bavarese Papa Ratzinger ha criticato il sistema di una imposta ecclesiastica così concepita: “In Germania abbiamo un cattolicesimo strutturato e ben pagato, in cui spesso i cattolici sono dipendenti della Chiesa e hanno nei suoi confronti una mentalità sindacale. Per loro la Chiesa è solo il datore di lavoro da criticare. Non muovono da una dinamica di fede… ci sono talmente tanti collaboratori sotto contratto che l’istituzione si sta trasformando in una burocrazia mondana… Mi rattrista questa situazione, questa eccedenza di denaro che poi però è di nuovo troppo poco”. Papa Francesco programmaticamente immagina una “Chiesa povera per i poveri”. Chissà che modello gli suggerirà il cardinale Marx per scongiurare il default vaticano.

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