La Lega è tornata ai vecchi amor con un progetto di legge sulla cittadinanza sulla questione dell’immigrazione, inserendo una stretta sui requisiti, ivi compreso, superata la maggiore età, un esame sull’integrazione perché la cittadinanza – dicono in via Bellerio – bisogna meritarsela. Forse sarebbe il caso che un giudizio di merito venisse richiesto anche a coloro che ricevono incarichi di governo, almeno sulle materie di cui devono occuparsi. Così anche i ministri, i viceministri e i sottosegretari sarebbero indotti a stare aggiornati. Ciò vale soprattutto per Claudio Durigon, che ha la delega per il settore delicato delle pensioni ma dimostra di non studiare abbastanza, tanto da mettere in giro, durante le sessioni di bilancio, proposte che per fortuna non decollano, che riguardano sempre, a partire dall’età anagrafica, i requisiti del pensionamento.
Il fatto è che Durigon ragiona con l’apparente buonsenso della casalinga di Voghera, secondo la quale se un anziano va in pensione al suo posto entra un giovane: la stessa logica con la quale il governo giallo-verde introdusse, in via sperimentale per un triennio, quota 100. Il cui esito dimostrò sul piano pratico che l’assunto non sussisteva, tanto che le adesioni furono meno della metà di quelle previste e che i governi successivi, anche quello di Giorgia Meloni, hanno finito per usare le quote allo scopo di disincentivare i pensionamenti anticipati.
In una recente intervista, Durigon ha giurato che l’aumento dell’età pensionabile (tre mesi scaglionati nel 2027-2028) sarà cancellato nel 2026, perché sono al lavoro troppi over 60, mentre servirebbe più flessibilità per assumere i giovani. È grave che un sottosegretario al ministero del Lavoro non tenga conto che oggi la crisi più evidente nel mercato del lavoro riguardi l’offerta; che le imprese lamentino di non riuscire a reperire – per mancanza delle competenze o per indisponibilità – il 48% del personale necessario; che il suo ministro abbia più volte dichiarato che in Italia vi è un mismatch di almeno 500mila posti di lavoro occupabili.
Nei giorni scorsi la Confindustria Emilia ha lanciato il progetto “Se scappi, ti assumo”, che prevede l’inserimento lavorativo di 250 migranti ospitati nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) nel tessuto produttivo, rispondendo a un urgente bisogno di manodopera, stimato in oltre 300.000 nuove assunzioni tra 2024-2028, e creando un nuovo modello di integrazione sociale attraverso formazione e collaborazione con istituzioni e sindacati.
Se la manodopera di età superiore a 50 anni è la componente maggioritaria degli occupati, non è altro che lo specchio di una popolazione oppressa dall’invecchiamento e dalla denatalità. Meno nascite uguale meno giovani. Il numero di persone di 18-34 anni era 15,2 milioni nel 1994, livello massimo, ed è sceso a 10,4 milioni alla fine del 2024. Questo calo è avvenuto nonostante il forte afflusso di immigrazione dai paesi a minor reddito, soprattutto extra-Ue, in larga parte giovani.
Poi ci sono i giovani che emigrano alla ricerca di migliori opportunità: dal 2011 al 2024 sono andati via 781mila italiani di cui 441mila nella fascia di età 18- 34 anni; e sono arrivati 55mila dagli stessi paesi di destinazione.
Per quanto riguarda le pensioni, l’Italia è un po’ la capofila di una lunga fase di transizione nel corso della quale sono arrivati, arrivano e arriveranno ancora all’appuntamento con la quiescenza e quindi a riscuotere l’assegno generazioni di lavoratori appartenenti a classi numerose (nel 1964 nacquero in Italia 1,1 milioni di bambini ), che sono entrate presto nel mercato del lavoro e, in forza delle caratteristiche dell’economia, hanno avuto lunghe storie lavorative stabili e continuative tali da consentire l’accesso al pensionamento anticipato di legioni di anziani/giovani e di rimanerci per un lungo arco di tempo a carico – essendo il finanziamento del sistema a ripartizione – di generazioni già minate dalla denatalità, secondo un trend in progressivo peggioramento (nel 2024 sono nati meno di 370mila bambini) e con tipologie occupazionali connotate da accessi tardivi e discontinuità nell’impiego.
Da oggi al 2050 avremo circa 4 milioni di over 75enni in più, mentre nei soli prossimi dieci anni oltre 6 milioni di lavoratori raggiungeranno l’età di per pensionamento. Si inserisce a questo punto il paradosso ben descritto dal demografo già presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, il quale ha calcolato – dall’esame dell’indice di carico prospettico, che recepisce anche il significativo cambiamento intervenuto nei livelli di sopravvivenza e conseguentemente sull’allungamento della vita (nelle età anziane) – che per ogni dieci annualità di contribuzione lavorativa delle generazioni baby boomers se ne prospettano otto di rendita pensionistica, passando dalla realtà di un “oggi”, in cui ogni (ipotetico) pensionato è mediamente sostenuto da tre (ipotetici) lavoratori, alla visione di un “domani” (già scritto nei dati dell’oggi), nel quale il tempo trascorso lavorando verrebbe quasi a coincidere con quello vissuto in quiescenza.
Neppure nel giardino dell’Eden sarebbe stata garantita la sostenibilità economica, finanziaria e sociale di un simile assetto. Pertanto Blangiardo chiama in causa l’incapacità, ma anche la mancanza di volontà, del sistema-paese nel conservare attivi tutti coloro che, seppur anagraficamente oltre la soglia convenzionale della vita lavorativa, potrebbero continuare ad offrire alla collettività il loro bagaglio di competenza ed esperienza, in ragione di requisiti del pensionamento in linea con l’attesa di vita.
Per questo obiettivo in Italia c’è una linea del Piave da difendere. Si tratta di una misura reintrodotta in anticipo dall’attuale governo rispetto agli anni in cui l’esecutivo giallo-rosso l’aveva bloccata: l’adeguamento automatico periodico (ora biennale) dei requisiti anagrafici e contributivi all’incremento dell’attesa di vita. La norma è ora sotto l’attacco congiunto dell’alleanza Salvini-Landini ed è quella che Durigon vorrebbe cancellare nel 2026.
L’importanza di questo meccanismo è stata riconfermata in tutte le sedi. Ricordiamo per la sua inesorabile chiarezza quanto ha scritto in proposito la Banca d’Italia, nella Memoria depositata nell’audizione sulla manovra delle Commissioni Bilancio riunite:
Il meccanismo di indicizzazione dell’età di pensionamento alla longevità fu introdotto per riequilibrare tra le generazioni il rapporto tra il tempo della vita trascorso al lavoro e quello trascorso in pensione; il meccanismo contribuirà nei prossimi anni a limitare la crescita della spesa pensionistica determinata dall’invecchiamento della popolazione. In base alle previsioni della Commissione europea la normativa in vigore consentirebbe di fermare la crescita dell’incidenza della spesa sul PIL nel 2036, quando raggiungerebbe un picco del 17,3 %, per poi ridursi e stabilizzarsi intorno al 13,7% nel 2070. Una transizione molto lunga legata all’andata a regime del calcolo contributivo. La RGS (nel rapporto n.26 sulle tendenze della spesa pensionistica e sanitaria) aggiunge un caveat che neppure Durigon può bypassare: ‘’con riferimento al solo meccanismo di adeguamento automatico dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita, la relativa soppressione comporterebbe un incremento del rapporto debito / PIL di circa 15 punti di PIL al 2045 e di circa 30 punti di PIL al 2070.






