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Cosa sperano e come si muovono i paesi del Golfo sulla guerra tra Israele-Iran. Il punto di Tasinato (Ecfr)

Politiche, strategie e scenari di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar sulla guerra tra Israele e Iran. Conversazione con Emily Tasinato, Pan European Fellow presso l’ufficio di Roma dello European Council on Foreign Relations (Ecfr) ed esperta di Paesi del Golfo.

Israele e Iran continuano a bombardarsi. I cieli di Teheran sembrano sotto il controllo dell’aeronautica israeliana e anche gli Stati Uniti stanno valutando un ingresso nella guerra. Ma come si stanno muovendo i paesi del Golfo, forse i primi interessati da questa escalation? Lo spiega a StartMag Emily Tasinato, Pan European Fellow presso l’ufficio di Roma dello European Council on Foreign Relations (Ecfr) ed esperta di Paesi del Golfo.

Quali sono i principali rischi per la stabilità del Golfo provenienti da questa escalation tra Israele e Iran?

Per i paesi arabi del Golfo, la guerra tra Iran e Israele rappresenta il “worst-case scenario”. La posizione altamente precaria, specialmente in termini di sicurezza, in cui attualmente si trovano le monarchie arabe del Golfo è in primo luogo strettamente connessa alla prossimità geografica con l’Iran. Questo aspetto le rende fortemente vulnerabili a qualsiasi ricaduta regionale del conflitto in corso. Nonostante i paesi del Gulf Cooperation Council (GCC) stiano ribadendo che i loro territori e le loro basi aeree non supporteranno operazioni militari contro l’Iran, tale posizione potrebbe non proteggerli completamente dalle conseguenze della guerra tra Iran e Israele.

Tale conflitto, insieme alla sua significativa quota di imprevedibilità, sta pertanto creando sfide significative per la sicurezza dei paesi arabi del Golfo, oltre che minacciare i rispettivi piani economici a lungo termine. Basta dare uno sguardo agli articoli di opinione pubblicati nei principali quotidiani locali per comprendere il livello di allarmismo. Il principale rischio è che i paesi del Golfo vengano trascinati nel fuoco incrociato tra Teheran e Tel Aviv, soprattutto dovessero gli interessi statunitensi nei loro territori essere colpiti, con il conseguente intervento militare diretto degli Stati Uniti a fianco di Israele. Oppure, dovesse il Presidente statunitense Donald Trump decidere a priori di bombardare la Repubblica Islamica, con ogni probabilità colpendo l’impianto di arricchimento di Fordow. Dalla prospettiva dei paesi arabi del Golfo, dinanzi a una minaccia percepita come esistenziale, la Repubblica Islamica, anche attraverso i suoi alleati regionali, potrebbe inoltre adottare misure più drastiche come attaccare infrastrutture e impianti energetici critici. Gli attacchi, nel 2019, contro le petroliere lungo la costa dell’emiro di Fujairah (EAU) e contro le infrastrutture ARAMCO di Abqaiq e Khurais (Arabia Saudita), nonché i più recenti attacchi degli Houthi contro gli EAU nel 2022, sono un ricordo ancora vivido. I sauditi, temono che il gruppo ribelle yemenita possa riprendere gli attacchi transfrontalieri contro il Regno. Ciò che potrebbe frenare l’Iran dall’attaccare, direttamente e/o indirettamente, i paesi arabi del Golfo è la consapevolezza che ciò andrebbe a compromettere, forse in modo irreversibile, il processo di distensione degli ultimi anni.

Sempre in riferimento alla tua domanda sui principali rischi, ovviamente c’è la questione del programma nucleare iraniano, con il rischio di una sua “weaponization”. In Iran si moltiplicano le richieste di abbandonare il Trattato di non proliferazione (TNP) e di produrre l’arma atomica. Questo sancirebbe una corsa al nucleare nella regione. L’Arabia Saudita sta lavorando attivamente per ottenere il supporto americano per lo sviluppo del suo programma nucleare civile, compreso l’arricchimento, scollegandolo dalla normalizzazione saudita con Israele. Questo è anche intrinsecamente legato a ciò che sarà del programma nucleare iraniano. Nella nota intervista di Fox News, il Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) ha dichiarato che se l’Iran dovesse acquisire un’arma nucleare, anche il Regno “otterrà” la sua. Un altro aspetto che non viene troppo spesso ricordato quando si analizzano le conseguenze degli strike (e possibili nuovi attacchi) israeliani contro impianti nucleari iraniani è quello ecologico. Si tratta di un tema che preoccupa molto i paesi arabi del Golfo per il rischio di fuoriuscita di radiazioni, inquinamento delle acque e la loro desalinizzazione. Viene spesso citata la centrale nucleare di Bushehr (non ancora presa di mira da Israele), che si trova a meno di 200 miglia dal Bahrain, EAU, Kuwait e Qatar.

Si è parlato della chiusura dello stretto di Hormuz. È uno scenario possibile? Con quali conseguenze?

I Paesi del GCC temono che, in caso di conflitto regionale, la prima mossa dell’Iran possa essere il blocco dello Stretto di Hormuz, attraverso cui transita oltre il 20% del petrolio mondiale. Questo passaggio strategico è stato al centro dell’attenzione regionale e internazionale soprattutto durante la crisi del 2019, che ha portato alla securitizzazione dell’area mediante l’avvio della missione europea EMASoH-Agenor e dell’International Maritime Security Construct (IMSC) guidata dagli Stati Uniti. Tale stretto rappresenta un nodo cruciale per il commercio globale di idrocarburi, costituendo la principale via di accesso del mercato energetico internazionale a una delle più grandi riserve di petrolio e gas del mondo. Per questo motivo, qualsiasi conflitto che ne minacci l’operatività rischia di compromettere non solo la stabilità regionale, ma anche l’economia globale. Uno scenario potenzialmente catastrofico potrebbe comportare l’interruzione totale delle forniture di petrolio e gas attraverso lo stretto. È vero che è improbabile che l’Iran arrivi a una chiusura totale del passaggio – poiché tutte le sue esportazioni energetiche passano da lì – tuttavia, un’escalation delle tensioni, accompagnata da attacchi alle petroliere in transito, avrebbe comunque un impatto significativo sui prezzi dell’energia e contribuirebbe a un’accelerazione dell’inflazione globale. Mentre un aumento temporaneo del prezzo del petrolio potrebbe favorire i produttori, una crisi prolungata danneggerebbe la fiducia degli investitori, ostacolerebbe le agende di diversificazione economica dei paesi arabi del Golfo e metterebbe a rischio la sostenibilità economica di lungo termine della regione. L’attacco israeliano all’Iran ha già provocato un immediato aumento dei prezzi del petrolio, con il Brent che è salito da 65 a circa 75 dollari al barile in pochi giorni. La regione del Golfo è piombata nuovamente in un clima di volatilità: diverse compagnie petrolifere stanno ritirando le proprie navi dalle rotte del Golfo, le tariffe di trasporto sono aumentate del 20%, mentre i costi assicurativi contro i rischi di guerra sono saliti di 3-8 dollari al barile. QatarEnergy, per esempio, ha ordinato alle navi di non entrare nel Golfo fino al giorno prima del carico.

Dietro le condanne pubbliche, espresse dai paesi del Golfo nei confronti di Israele per gli attacchi del 13 giugno, c’è altro? Alcune analisi ritengono che comunque un indebolimento dell’Iran non sia sgradito.

Negli ultimi anni, i cambiamenti nelle dinamiche regionali hanno mutato il rapporto tra l’Iran e i paesi arabi del Golfo. Quest’ultimi – specialmente Arabia Saudita ed EAU – hanno fatto degli ambiziosi piani di diversificazione economica il motore della propria politica estera, dando priorità alla diplomazia al fine di creare un ambiente regionale stabile e favorevole alle rispettive ‘Visions’. Sia Abu Dhabi che Riyadh hanno adottato un approccio costruttivo e di distensione nei confronti del vicino iraniano proprio al fine di calmare le tensioni regionali. Tuttavia, ed è importante sottolinearlo anche ai fini della tua domanda, i paesi arabi del Golfo non hanno mai smesso di diffidare dall’Iran. Questioni irrisolte continuano ad alimentare la sfiducia reciproca e, nonostante il significativo indebolimento delle sue capacità militari, la rete di alleanza regionale guidata dall’Iran (aka ‘Asse della Resistenza’) continua a preoccupare le monarchie arabe del Golfo. Pertanto, l’indebolimento dell’Iran “non è sgradito,” utilizzando le tue parole, nella misura in cui esso risulta funzionale a rafforzare l’impegno politico-diplomatico ed economico in teatri regionali critici e storicamente orbitanti entro la sfera di influenza iraniana. Pensiamo al Libano e alla Siria dove, dinanzi a un progetto della ‘resistenza’ minato nella sua struttura operativa finora messa in campo dall’Iran, l’Arabia Saudita si sta ritagliano sempre più spazio per un ruolo politico ed economico di primo piano nelle nuove dinamiche interne. In altre parole, si potrebbe dire che è nell’interesse di questi paesi avere un Iran indebolito e più proiettato verso “l’interno” piuttosto che sul piano regionale. Ma, come precedentemente accennato, il Golfo è una regione interconnessa, dove la sicurezza della sponda araba risulta intrecciata a quella della sponda iraniana. Quello che emerge è un quadro altamente complesso, dove opportunità strategiche si affiancano a rischi securitari.

Oman, Qatar ed Emirati possono giocare un ruolo di mediatori oggi? Qual è la posizione specifica dell’Arabia Saudita, visto il suo riavvicinamento con l’Iran ma anche i legami con gli Usa?

C’è una frenetica spinta diplomatica da parte di tutti i paesi arabi del Golfo per tentare una de-escalation. Doha e Muscat rappresentano, senza dubbio, due canali di comunicazione chiave grazie al ruolo di mediazione tradizionalmente rivestito e al mantenimento di relazioni aperte sia con Teheran che con Washington. Nel caso specifico dell’Oman, lo ricordiamo, il Sultanato ha sempre svolto un ruolo cruciale nel dialogo tra i due paesi, ospitando anche i recenti negoziati sul nucleare. Pertanto, Doha e Muscat stanno cercando di costruire una base di dialogo tra Stati Uniti e Iran al fine di arrivare a un cessate il fuoco sostenibile. Al contempo, anche l’Arabia Saudita risulta ben posizionata per giocare il ruolo di mediatore. È altamente probabile che il Regno si sia già attivato dietro le quinte per servire come ulteriore canale di dialogo, sfruttando il riavvicinamento diplomatico alla Repubblica Islamica al fine di “influenzarne” il comportamento e, al contempo, facendo leva sul rapporto personale privilegiato tra MbS e Trump per chiarire che un attacco degli Stati Uniti all’Iran è una “red-line” per i paesi del Golfo. In un quadro già altamente complesso, i diversi e contraddittori messaggi lanciati da Trump rendono difficile alle monarchie del Golfo capacità di previsione e di manovra. In poche ore siamo passati dalle indiscrezioni sugli sforzi per un possibile incontro tra l’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff, il Vicepresidente JD Vance e il Ministro degli Affari esteri iraniano Abbas Araghchi, ai preparativi per un imminente attacco congiunto israeliano-statunitense. La condotta del Presidente statunitense negli ultimi giorni­­, insieme alla sua mancanza di volontà e/o capacità di contenimento di Israele hanno distrutto la fiducia che l’Iran aveva riposto nell’amministrazione Trump 2.0 e nella sua volontà di scegliere la strada della diplomazia. Che Trump non fosse affidabile, anche i paesi arabi del Golfo lo sapevano già molto bene. D’altronde, si tratta dello stesso presidente che nel 2019 aveva deciso di non intervenire in supporto del Regno a seguito degli attacchi contro le infrastrutture petrolifere ARAMCO. Ed è lo stesso Trump che un mese fa, a Riyadh, aveva criticato aspramente gli interventisti e i ‘neocon’.

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