Alla fine della fiera, varata la nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen, gli osservatori si dividono tra chi dice che la vicepresidenza esecutiva assegnata a Raffaele Fitto non compensa l’alleggerimento delle deleghe (rispetto a quelle precedentemente ottenute da Paolo Gentiloni) e chi dice che l’alleggerimento delle deleghe non può far sottovalutare il peso della vicepresidenza esecutiva.
Di conseguenza, sulla posizione di Giorgia Meloni, tagliando per brevità i pareri più scontati di seguaci e avversari, i giudizi variano dal discreto successo alla «vittoria di Pirro». Non male, dal suo punto di vista, considerato come si erano messe le cose dopo il mancato trionfo sovranista alle elezioni europee.
Se l’azzardo con cui Meloni aveva deciso di schierare Fratelli d’Italia contro la riconferma di Von der Leyen era sembrato a molti un errore (e io penso ancora che lo sia stato), di sicuro è un errore che non è stato punito. Quindi, si direbbe negli scacchi, una mossa fortissima.
Anche se in questo caso a dare scacco matto, a socialisti, verdi e liberali, ma anche a Emmanuel Macron (soprattutto) e Olaf Scholz, parlandone da vivo (politicamente, s’intende), è stata senza dubbio Von der Leyen.
La presidente è riuscita infatti a ottenere prima il voto dei verdi contro l’apertura a destra, per poi aprire a destra (col gioco degli incarichi dati ai paesi anziché ai partiti) emarginando i verdi, e rendendo di fatto ininfluenti gli stessi socialisti, ormai presi in ostaggio dentro una commissione dominata dai popolari in tutte le caselle fondamentali, e chiaramente spostata a destra dal rilancio del dialogo con il gruppo meloniano dei Conservatori e riformisti europei.
(Estratto dalla newsletter La Linea di Cundari)