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Bonafede

Vittoria di Pirro per Bonafede sulla prescrizione? I Graffi di Damato

Il ministro della Giustizia, Bonafede (M5S), festeggia forse troppo presto la fine della prescrizione. Ecco perché. I Graffi di Damato

Il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, avvolto metaforicamente nella prima pagina del Fatto Quotidiano con un titolo sfottente verso il curioso alleato Matteo Renzi per avere votato con l’opposizione di centrodestra, ha festeggiato un po’ imprudentemente la vittoria conseguita nella commissione Giustizia della Camera. Dove con 23 voti contro 22, e il contributo decisivo della presidente pentastellata, è stata bocciata la proposta del berlusconiano Enrico Costa di sopprimere la soppressione della prescrizione -scusate il bisticcio delle parole- all’arrivo della sentenza di primo grado.

L’imprudenza della festa del ministro Bonafede e amici per quello che i critici chiamano “ergastolo processuale”, o processo infinito, sta in alcune considerazioni che fanno assomigliare o potrebbero tradurre quella del Guardasigilli pentastellato nella classica e famosa vittoria di Pirro.

Non più tardi del 27 gennaio, il giorno dopo le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria alle quali potrebbe risultare appesa la stessa sorte del secondo governo di Giuseppe Conte, la proposta di Costa arriverà nell’aula di Montecitorio. Dove con l’aiuto del voto segreto, dati i mal di pancia diffusi in materia nel Pd, tempestivamente accusato da Matteo Renzi di essersi “grillinizzato”, o di essersi consegnato “in manette” agli alleati pentastellati, come ha titolato il Giornale della famiglia Berlusconi, il verdetto della commissione potrebbe essere rovesciato. E a quel punto la festa potrebbero celebrarla Renzi e il centrodestra.

La seconda considerazione che gioca per il carattere imprudente della festa di Bonafede riguarda il confronto fra quanto è accaduto sulla prescrizione alla Camera e quanto sull’affare Gregoretti -cioè sul processo a Salvini per sequestro di persona chiesto dal tribunale dei ministri di Catania- sta accadendo al Senato. Dove la maggioranza giallorossa a trazione grillina -questa volta, bisogna dirlo, col concorso dei renziani- ha alzato barricate contro la decisione del presidente della giunta delle immunità, il forzista Maurizio Gasparri, di votare in quella sede sulla questione lunedì 20 gennaio, prima cioè delle elezioni regionali del 26. E ciò secondo un calendario deciso prima della sospensione dei lavori parlamentari disposta dalla conferenza dei capigruppo per consentire ai senatori di partecipare all’ultima settimana di battaglia politica in Emilia-Romagna e in Calabria.

La maggioranza giallorossa, a trazione -ripeto- grillina non foss’altro per la consistenza parlamentare delle sue componenti, considera evidentemente la soppressione della prescrizione tanto popolare, e utile quindi ai fini delle elezioni regionali del 26 gennaio, quanto impopolare o rischioso il sì da essa perseguito al processo per sequestro di persona contro l’ex ministro dell’Interno Salvini. Che infatti reclama questo voto entro il 20 nella giunta delle immunità per spendersi nell’ultima settimana di campagna elettorale come un perseguitato politico, difeso dagli allora alleati grillini per l’analoga vicenda della nave Diciotti e degli immigrati bloccativi a bordo prima della loro distribuzione fra vari paesi europei, e osteggiato ora, in ordine alla vicenda della nave Gregoretti, perché passato nel frattempo all’opposizione. Salvini insomma vuole o tenta di giocare la carta dell’avversario che si vorrebbe in quanto tale ”cancellare”, per ripetere la parola usata in un titolone compiaciuto di prima pagina da Repubblica per sintetizzare un’intervista contro il leader leghista dal capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio in tema di immigrazione: un incidente, infortunio, chiamatelo come volete, in cui è incorso il giornale fondato da Eugenio Scalfari e ora diretto da Carlo Verdelli. Che vi è ricaduto oggi su un altro tema impostogli proprio da Scalfari con una nuova, al solito lunghissima “conversazione” con l’amico Papa Francesco.

Poiché l’udienza-intervista papale si è svolta nelle ore in cui infuriava la polemica per lo scontro tra Repubblica su Benedetto XVI e Francesco sul tema del celibato sacerdotale per un libro a doppia firma col cardinale africano Robert Sarah appena pubblicato in francese, la Repubblica ha ritenuto di poterla titolare, almeno all’interno, così: “Papa Francesco: con Ratzinger il caso è chiuso”. Chiuso, perché Benedetto XVI aveva annunciato il ritiro della firma dal volume per non vedersi e sentirsi arruolato fra gli antibergogliani: da Bergoglio, il cognome anagrafico del Pontefice regnante.

Purtroppo per la Repubblica, e per lo stesso Papa Francesco, “il caso” è tutt’altro che chiuso perché il Papa emerito Benedetto -non si è ancora ben capito se per ristabilire la verità dei fatti o per coprire la gestione dell’affare da parte del suo potente segretario e arcivescovo Georg Ganswein, che serve adesso in altro modo il nuovo Pontefice- ha autorizzato il cardinale africano a compensare il ritiro della sua firma dal libro con l’introduzione di una nota di esplicita approvazione del passaggio più significativo del volume riguardante l’intangibilità del celibato sacerdotale. Sono cose di Chiesa, diciamo così, analoghe a quelle della politica laica italiana, ma non solo, bisognerebbe aggiungere.

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