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Via Della Seta

Perché la Cina lascerà morire in silenzio la Nuova Via della Seta. Parola del prof. Minxin Pei

Minxin Pei, docente al Claremont McKenna College e presidente di U.S.-China Relations al Kluge Center della Biblioteca del Congresso, in un articolo apparso sulla “Nikkei Asian Review”, spiega perché Pechino lascerà “morire in silenzio” la BRI e, dopo un esame di coscienza, deciderà se proseguire l’iniziativa su nuove, più ristrette basi o se abbandonarla del tutto.

A dispetto delle apparenze e dei titoli altisonanti della stampa, la Belt and Road Initiative (BRI), il faraonico insieme di progetti infrastrutturali della Cina noto anche come Nuova Via della Seta, non gode di buona salute. Non pochi problemi minacciano di far saltare i finanziamenti multimiliardari che Pechino ha assegnato alla costruzione di una vasta rete di strade, ferrovie e altre infrastrutture destinate, secondo il disegno strategico del presidente Xi Jinping, a collegare Asia ed Europa, passando per Medio Oriente e Africa.

L’ambizioso piano di fare della Cina il perno di una serie di assi di comunicazione transcontinentali, e dunque il centro del nuovo mondo, potrebbe presto cedere il posto a progetti meno monumentali – una sorta di BRI 2.0 rivista al ribasso – e sostenibili per le casse di un regime che non dispone più della bonanza finanziaria che l’aveva spinto, nel 2013, a varare la BRI. Ma non è nemmeno escluso che Pechino, in tempi di austerity, rallentamento della crescita economica e boom della spesa pensionistica, decida di sacrificare del tutto la BRI sull’altare del realismo economico.

Un travaglio, quello della BRI, che possiamo ricostruire con l’aiuto dell’analisi di un esperto come Minxin Pei, docente al Claremont McKenna College e presidente di U.S.-China Relations al Kluge Center della Biblioteca del Congresso. Il quale, in un articolo apparso sulla “Nikkei Asian Review”, spiega perché, a suo avviso, Pechino lascerà “morire in silenzio” la BRI e, dopo un esame di coscienza, deciderà se proseguire l’iniziativa su nuove, più ristrette basi o se abbandonarla del tutto.

L’articolo di Pei comincia ricordando alcune pessime notizie arrivate da paesi che inizialmente erano saltati sul carro della BRI. Il primo ministro della Malesia, Mahathir Mohamad, ha cancellato due mega progetti BRI, inclusa una linea ferroviaria da 20 miliardi di dollari. Il nuovo governo pakistano ha avviato una revisione di uno dei progetti di punta della BRI, il Corridoio Economico Cina-Pakistan, cui la Cina aveva destinato un finanziamento da 60 miliardi di dollari. Il governo del Myanar ha comunicato a quello di Pechino di aver sospeso la costruzione di una maxi diga e di una centrale idroelettrica. E le Maldive stanno cercando di rinegoziare il debito di 3 miliardi di dollari, equivalente a due terzi del loro Pil, derivante dai prestiti concessi dalla Cina per finanziare progetti BRI.

Queste notizie arrivano in un momento in cui, in Cina, il grande e altisonante dibattito sulla BRI e sulle ripercussioni che le grandi infrastrutture cinesi avranno sugli equilibri economici e geopolitici dei paesi interessati subisce una battuta d’arresto. La macchina della propaganda del partito, osserva Pei, ha smesso di intonare il coro delle magnifiche sorti e progressive della BRI, al punto che gli articoli celebrativi sui quotidiani nazionali sono drasticamente diminuiti negli ultimi mesi.

Il perché, di questa sordina, è presto detto. In Cina, secondo Pei, è cominciata una seria riflessione sulla BRI spinta dalla profonda trasformazione del contesto economico cinese. Un contesto diventato irriconoscibile, rispetto al momento in cui, sei anni or sono, la BRI ebbe i natali. Allora, le riserve in valuta estera di Pechino erano arrivate a contare la cifra da sogno di quasi quattro trilioni di dollari. Naturale che si pensasse a far confluire questa disponibilità ciclopica in investimenti in infrastrutture. L’idea, del tutto logica da un punto di vista economico, era di risolvere il problema dell’eccesso di liquidità con l’acciaio, il cemento e le industrie delle costruzioni.

Ma il mondo, in questi sei anni, è cambiato. Lo si vede, anzitutto, dal significativo rallentamento della crescita economica cinese, che non conosce più i grandi balzi annui cui ci si era abituati negli anni del grande decollo. Un rallentamento cui si è accompagnata una fuga di capitali che ha assottigliato di più di un trilione di dollari le riserve in valuta estera. Una situazione che si è aggravata con l’esplodere della guerra dei dazi con gli Stati Uniti, destinata a produrre un serio impatto sulla bilancia dei pagamenti. Tutti gli analisti sanno che d’ora in poi la Cina non disporrà più dei maxi surplus in valuta estera con cui finanziare i progetti BRI, non almeno nella stessa scala.

I dazi, peraltro, non si limitano a ridurre le esportazioni cinesi negli Stati Uniti (e anche in altri mercati stranieri). Creano, soprattutto, incertezza sui mercati, preoccupati per le sorti della relazione bilaterale più importante del pianeta, con l’effetto di indebolire ulteriormente il flusso di export dalla Cina. E giacché il surplus delle partite correnti con gli Usa è la parte più importante del surplus complessivo della Cina, questo trend preoccupa molto. È chiaro infatti che il deteriorarsi della già florida bilancia dei pagamenti costringerà Pechino a usare le sue riserve principalmente per difendere lo yuan e per preservare la fiducia degli investitori sulla stabilità macroeconomica della Cina. Il risultato, per Pei, è presto detto: “Pechino”, osserva, “dovrà rivedere con cura i suoi impegni esteri. I progetti grandiosi concepiti e lanciati quando era piena di valuta estera dovranno essere rivalutati. Alcuni dovranno essere tagliati se non completamente abbandonati”.

Le cattive notizie, per la BRI, non arrivano però solo dal fronte della bilancia dei pagamenti. A suonare la campana a morto per il grande sogno di Xi ci stanno pensando anche problemi di non poco conto come la crescita poderosa della spesa pensionistica, la diminuzione delle entrate fiscali e la minor crescita economica. Fattori che per Pei rappresentano la classica “tempesta perfetta”.

L’outlook fiscale, per la Cina, segna cattivo tempo. Lo dimostrano le cupe parole del Ministero delle Finanze formulate alla conferenza finanziaria annuale tenutasi lo scorso dicembre. In quella sede, il ministro Liu Kan esortò “tutti i livelli del governo a stringere la cinghia e a fare tutto il possibile per ridurre le spese amministrative”. Anche a Pechino, dunque, sono cominciati i tempi dell’austerity. Affrettati dal declino delle entrate fiscali (-1,2%), propiziato dal taglio delle tasse deciso dal governo con l’obiettivo di stimolare la crescita. La minor crescita è destinata ad aggravare questo quadro fiscale in via di deterioramento.

Ma il “buco” fiscale più inquietante è quello prodotto dalle spese crescenti per le pensioni di una popolazione che invecchia rapidamente. Secondo i dati del Ministero delle Finanze, nel 2017 il governo ha dovuto mettere 1,2 trilioni di yuan per contribuire a finanziare una spesa ormai fuori controllo. Le prospettive, in questo campo, appaiono fosche.

Se questo è il quadro, è naturale pensare che la BRI sia destinata a ricoprire il ruolo della vittima illustre degli inesorabili tagli di budget. Una decisione che non può, naturalmente, essere presa alla leggera da parte di una dirigenza che ha presentato i progetti BRI come l’architrave della proiezione mondiale della superpotenza cinese. Ma Xi e gli altri leader che in questi anni hanno decantato la BRI hanno adesso l’ingrato compito di dimostrare, per dirla con le parole di Pei, che “togliere soldi ai pensionati cinesi per costruire una strada che va (chissà dove) in terre distanti” è una strategia sensata.

La conclusione di Pei è che non “dovremmo essere sorpresi se, alla fine, la Cina lascerà che la BRI, o almeno la BRI 1.0, muoia in silenzio”. La sfida lanciata da Pechino al mondo potrebbe, insomma, essere abortita ancora prima di nascere. O, forse, rinascerà dalle proprie ceneri per evolversi in forme che ancora non immaginiamo. Conoscendo Xi e le sue ambizioni, possiamo immaginare che venderà cara la pelle prima di rinunciare al suo progetto più importante. D’altra parte, se l’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese l’ha incoronato presidente a vita, c’è da credere che, anche su questa partita, l’ultima parola non è stata detta.

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