Che cosa sta accadendo alla Tunisia, Paese da cui gli sbarchi che interessano le nostre coste sono aumentati dell’800% rispetto all’anno scorso? La profonda crisi politica, economica e sociale del Paese nordafricano è al centro della conversazione che Start Magazine ha intrattenuto con Michela Mercuri, docente di Cultura, Storia e Società dei Paesi musulmani all’Università di Padova.
Nei primi mesi dell’anno l’impennata di profughi dalla Libia c’è stata, più 80% rispetto allo scorso anno, ma quella dalla Tunisia è stata di quasi l’800%. Perché?
Abbiamo sempre parlato della Libia, ma ci siamo dimenticati di volgere lo sguardo verso Ovest per capire cosa accadeva nella piccola ma tumultuosa Tunisia, che abbiamo sempre considerato un’eccezione felice delle primavere arabe, ma a torto. Secondo i dati del Viminale, su 20 mila arrivi fino a gennaio di quest’anno, ci sono stati 1.300 tunisini, ma non dobbiamo dimenticare che ci sono stati e ci sono tuttora tantissimi sbarchi fantasma che non vengono intercettati dalle autorità preposte, ossia dalla Guardia costiera e quant’altro, e portano ad un aumento della percentuale di sbarchi tunisini a quell’800% cui faceva riferimento nella sua domanda. Si parla addirittura di 150 sbarchi al giorno di piccoli barchini che non vengono intercettati. I problemi economici della Tunisia, uniti anche alla nuova stretta del presidente Saied nei confronti dei migranti subsahariani. non ci fanno prevedere nulla di buono, e quindi credo che il Paese dovrà essere maggiormente attenzionato nei prossimi mesi.
I vertici tunisini si sono resi protagonisti in questo frangente di dichiarazioni al limite del razzismo.
Più che di dichiarazioni al limite del razzismo, parlerei di vere e proprie dichiarazioni razziste nei confronti degli immigrati subsahariani. La cosa più grave è che Saied ha chiaramente detto che ci sono ondate di immigrazione irregolare che potrebbero fare della Tunisia un Paese puramente africano a scapito dell’identità araba e musulmana del Paese. Una dichiarazione molto forte che ha creato grossi problemi alle comunità subsahariane presenti nel Paese, che non possono più lavorare e addirittura vengono cacciate dalle loro abitazioni. E quindi questi migranti cercheranno di cercando di fuggire e potrebbero dirigersi verso le coste più vicine, che sono le coste italiane. Perché Saied abbia fatto queste dichiarazioni, è difficile dirlo: una delle ipotesi potrebbe essere quella di cercare di aumentare i finanziamenti esteri, e anche quelli italiani, per far fronte alla crisi economica interna che il Paese sta attraversando, in qualche modo ‘ricattandoci’ sulla questione migranti un po’ come fa Erdogan in Turchia. È solo un’ipotesi, ma non è del tutto inverosimile.
In queste circostanze, l’Italia e l’Europa cosa possono fare al di là del professare la propria impotenza?
La Tunisia indubbiamente è un Paese importante per l’Europa e soprattutto per l’Italia per quanto riguarda il contenimento e la gestione dei flussi migratori che come abbiamo detto sono destinati in prospettiva a crescere notevolmente. L’Italia è stretta in una morsa particolare: da un lato non può accettare l’atteggiamento di Saied, ma dall’altro deve cercare di mantenere qualche rapporto con questo Paese e gestore congiuntamente i flussi migratori, così come è stato prospettato in occasione delle varie visite dei vertici istituzionali.
Come se ne esce?
Io credo che la vera evoluzione della situazione tunisina partirà dall’interno del Paese: ci sono molte manifestazioni in questo periodo per via della crisi economica, ma soprattutto manifestazioni sindacali formate soprattutto da giovani che hanno ribadito la natura antirazzista della Tunisia e che manifestano contro quanto ha detto lo stesso Saied. Quindi io credo che se da un lato l’Italia deve mantenere il pugno fermo, senza accettare questa sorta di ricatto, dall’altra è costretta a mantenere dei canali aperti di contatto con un Paese dal quale arrivano tanti migranti verso l’Italia. Ribadisco però che il vero cambiamento deve verificarsi dall’interno, proprio come era successo nel 2011, anche se poi l’eccezione felice delle primavere arabe è diventata uno dei più grossi problemi che abbiamo adesso nel Nordafrica. Io confido molto sul potere della popolazione che tra l’altro in questo momento sta manifestando vivacemente contro le politiche del Presidente.
La Tunisia è immersa in una profonda crisi politica, che ha dissipato i promettenti risultati della rivoluzione dei gelsomini.
In realtà noi ci siamo sempre illusi che la Tunisia potesse uscire da quella che era l’involuzione post primavere arabe perché fin dall’inizio era riuscita a darsi una Costituzione e a tenere elezioni regolari con l’alternanza di partiti laici e islamisti e anche grandi coalizioni tra partiti laici e partiti islamisti. Questa apparente stabilità istituzionale mascherava però dei problemi di fondo che sono venuti a galla già dopo le rivolte arabe e sono esplosi nel corso degli anni. Non dobbiamo dimenticare che la Tunisia è il Paese che ha esportato il maggior numero di foreign fighters nei teatri levantini, oppure che la Tunisia è uno dei Paesi del Nordafrica con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, e inoltre che la Tunisia è uno dei Paesi dal quale molti giovani partono verso l’Italia per cercare un futuro migliore, e questo include anche i giovani della classe media e più istruita. Quindi la crisi politica che sta attraversando il Paese è la risultante di tutta una serie di problematiche che noi in qualche modo non abbiamo visto o che forse ci siamo sforzati di non vedere, accecati come eravamo da quella apparente stabilità istituzionale che è crollata con le più recenti prese di posizione di Saied.
La Tunisia è anche preda di una profonda crisi finanziaria. Quali sono gli indicatori più importanti del malessere economico del Paese?
La crisi politica fa da sfondo a una profonda crisi economica che va avanti ormai da parecchi anni. Questa crisi economica aveva spinto il presidente a chiedere un prestito di due miliardi dollari all’Fmi, prestito che è stato però bloccato per le affermazioni di Saied sui migranti subsahariani e più in generale per la deriva autoritaria del Paese. E questo potrebbe aggravare ancora di più la situazione economica ma anche la situazione sociale, perché le due cose sono profondamente legate: quando non c’è il pane crescono le proteste, come sta regolarmente accadendo in Tunisia ma anche in altri Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Molti di questi Paesi, inclusa la Tunisia, dipendono fortemente dal grano russo e da quello ucraino che veniva passato con dei sussidi statali. Ora questo grano viene a mancare, il pane viene a mancare e ci sono nuove rivolte popolari. A questo si aggiunge una crisi economica di tipo strutturale con una inflazione superiore al 10% registrata nel febbraio di quest’anno con un tasso di disoccupazione del 15% che è una soglia standard per la Tunisia, la cui situazione non è mai migliorata nell’ultimo decennio, gravata peraltro da un deficit che nel 2022 ha sfiorato l’8%. Questo insieme di fattori sta perciò alimentando una situazione di crisi economica abbinata alla crisi sociale.