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Tunisia

Vi spiego le ragioni degli anti Conte

Che cosa succede nella maggioranza di governo e perché non solo nell'opposizione ma anche nei partiti che sostengono l'esecutivo Conte si rincorrono critiche e interrogativi sulle mire politiche (se non partitiche) del presidente del Consiglio. L'analisi di Gianfranco Polillo

Ricapitoliamo dall’inizio. C’è un Governo nato male e cresciuto peggio. Figlio di un’anomalia costituzionale senza precedenti. Non si dimentichi che la nostra Carta fondamentale stabilisce “che il presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Può una stessa persona “dirigere”, in una sorta di strabismo istituzionale, maggioranze di segno opposto, solo un attimo prima contrapposte?

Quei limiti, per così dire, fondativi sono aumentati con il trascorrere del tempo, nonostante la tragedia della pandemia. Che ha contribuito a garantire una coesione un po’ disperata. Si poteva cambiare, aprendo una sorta di vaso di Pandora, mentre i decessi tingevano di nero gran parte delle città d’Italia? Furbescamente, il presidente del Consiglio ha utilizzato a proprio vantaggio questa complicata situazione. Accentrando, progressivamente, su di sé ogni possibile potere. Fino ad alimentare da parte dei suoi stessi alleati fenomeni di rigetto. Lo si è visto nello scontro continuo con Matteo Renzi, ma anche nella crescente insofferenza da parte del Pd.

A quest’ultimo era stato richiesto un esercizio di pazienza che sfiorava sempre più l’autolesionismo. Nei lunghi annali della Repubblica si erano visti raramente gli eccessi comunicativi, quasi una sindrome narcisistica, del presidente del Consiglio. Il suo voler entrare direttamente in contatto con l’opinione pubblica attraverso il sistema dei media. Il più delle volte utilizzato in modo proprietario, almeno a giudicare dai ritardi che hanno caratterizzato le sue esternazioni televisive. Con un pubblico vasto in attesa di conoscere come non avrebbe potuto trascorrere le feste di Natale.

Anomalia tutta italiana. In Europa la comunicazione è molto più discreta. In Olanda, il premier Mark Rutte ha utilizzato lo strumento televisivo, fatto eccezionale, solo quando ha dovuto annunciare il lockdown natalizio. Angela Merkel quel discorso appassionato, in cui traspariva tutta la sua commozione, l’ha fatto di fronte al Bundestag. Ad ascoltarla c’erano i parlamentari e non certo i cameraman degli studi televisivi. Per Conte, invece, ogni occasione era buona per presentarsi in Tv, approfittando di una regia appositamente studiata per esaltare le ipoteche virtù di un Governo sempre più stanco e prevedibile.

Pedagogia a buon mercato in un afflato spesso ecumenico, scarsamente credibile. Prolissità ripetitive. Per cui al termine di discorsi interminabili era spesso difficile capirne il senso complessivo o le possibili novità. Spesso un lungo elenco di promesse scritte sull’acqua. Come si vedrà nel proseguo a consuntivo. Ma con una logica di fondo: accreditarsi sempre più come leader politico, superando d’un balzo le asprezze della gavetta politica. Quelle fatiche che, da sempre, hanno segnato la vita di coloro che si candidavano a svolgere ruoli pubblici.

Una nuova forma della politica, per parafrasare il lessico di Goffredo Bettini, testa d’uovo del Pd? Se fosse così, sarebbe un’anomalia nelle stesse eccezioni che hanno caratterizzato la vita del Paese. Tecnici prestati alla politica ci sono sempre stati. A parte il fatto che “l’avvocato del popolo” mal si presta a questo inquadramento, gli altri avevano un pedigree riconosciuto. Professori universitari stimati per le loro opere. Grand commis d’Etat. Manager di successo e via dicendo. Insomma: personaggi ben conosciuti nella loro vita precedente. E non – ecco l’anomalia – “perfetti sconosciuti”, pronti a correre la grande avventura, stressando al massimo le prerogative della carica istituzionale, piovutegli addosso.

Inevitabili allora le reazioni. Fin quando Conte era chiamato a mediare tra Salvini e Di Maio, ci poteva anche stare. Certo: era uno stravolgimento dell’articolo 95 della Costituzione. Ma nell’esperienza italiana molti erano stati i casi di re travicello. Ma da quando il Presidente si era messo o ha dato l’impressione di volersi mettere in proprio, le cose erano cambiate. Soprattutto all’interno del suo partito di riferimento. Chi era infatti costui, rispetto ai vecchi attivisti, che si erano formati nelle lunghe discussioni dei meetup? Aveva ottenuto l’endorsement da parte di Beppe Grillo. Ma, a sua volta, l’Elevato, per sua libera scelta, non era più quello dei vecchi tempi.

Leader, come Luigi Di Maio o lo stesso Vito Crimi, avevano maturato crescenti perplessità. Il terzo incomodo, seppure non nell’immediato, rischiava di dare, almeno ad una parte del movimento, un indirizzo particolare. Il sospetto era che, prima o poi, sarebbe nato un “partito Conte”, in grado di avere l’appoggio di una parte della galassia del movimento. Mugugni più che certezze, ma tali da incidere su quella partita a scacchi che si sta giocando tra il Dibba, gli stessi Crimi e Di Maio, nonché Roberto Fico. Al momento ibernato come presidente della Camera, ma comunque deciso a non rinunciare al grande gioco della politica.

Quand’è che questi movimenti, fino ad un momento prima sotterranei, sono emersi alla luce del sole? Quando lo stesso Conte ha tentato il grande colpo. Pensare di gestire i 209 miliardi del Recovery Fund, con un triunvirato, costituito da lui stesso, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, sempre più autonomo dallo stesso Pd, e Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico. Considerato il più democristiano, insieme allo stesso Conte, tra i 5 stelle. Tentativo da molti considerato la ciliegina sulla torta di un progetto politico ben più ambizioso.

Bisognava imporre uno stop. Ed esso è avvenuto grazie alla reazione di Matteo Renzi, da tempo in lizza, con i suoi penultimatum, contro la presidenza del Consiglio. Questa volta, tuttavia, il capo di Italia vVva non ha lavorato solo per se stesso. Ma ha agito su delega di quanti, capito o semplicemente sospettato il gioco di Conte, hanno voluto mandare un messaggio chiaro e forte. Mesi fa, le chiavi del Paese non furono consegnate a Matteo Salvini. Forse, e a maggior ragione, non le daranno ad un outsider: divenuto per caso presidente del Consiglio.

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