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Vi spiego le origini della diaspora dei curdi

I curdi? Un popolo che fu diviso e sparpagliato “dentro i confini di quattro Paesi”, ricorda oggi D’Alema. Una spina nel fianco in altrettanti regimi che non brillano certo per le regole della democrazia e della convivenza. L'analisi di Polillo

 

Massimo D’Alema, intervistato da La Stampa, sulla complicata situazione siriana dopo l’invasione decisa da Erdoğan, ci ha ricordato quanto avvenne nel Kossovo. “Stavolta – ha affermato – sono in gioco i nostri valori. Quando l’Occidente ha avuto una leadership forte e la Serbia ha invaso il Kossovo per fare pulizia etnica, noi facemmo la guerra per impedirlo”.

Difficile dargli torto. Se non fosse che, alla mente, quel paragone richiama un’altra situazione. Winston Churchill che, parlando “del ventre molle dell’Europa”, enunciò parole che sono rimaste famose. L’idea che i Balcani “producessero più storia di quanto ne potessero digerire”. Anche in quel caso: un territorio ch’era un crogiuolo di razze e di religioni, con differenti retaggi culturali e religiosi (fra cattolici, ortodossi e musulmani), mai giunti a convivere pacificamente, in quanto divisi per secoli da profondi dissidi. Forse questo non è proprio il caso dei curdi: molto più avanti – si pensi solo al conflitto tra sunniti e sciiti – nel praticare la regola della tolleranza. Ma certo è che, ancora oggi, in quella parte martoriata del mondo si pagano i retaggi di una storia crudele.

La dissoluzione dell’impero ottomano, alla fine della Grande guerra, fu terreno di conquista da parte dei vincitori. Soprattutto inglesi e francesi, ma anche con lo zampino degli americani. Che si videro accontentati nella ripartizione delle grandi risorse petrolifere. Il primo accordo, ottenuto il via libero dalle potenze europee, data il 1933: epoca in cui fu firmata la prima convenzione con la Standard Oil of California per la ricerca e lo sfruttamento di eventuali giacimenti nel territorio dell’Arabia Saudita. Le intese prebelliche tra la Francia e la Gran Bretagna prevedevano la nascita di una Grande Siria, sotto il controllo di Parigi. La successiva scoperta dei grandi giacimenti petroliferi di Mossul impose un cambiamento di programma. Furono sottratte alla Siria alcune province, una parte del territorio (abitato in prevalenza dai curdi) alla Turchia. E l’insieme di questa nuova aggregazione prese il nome di Iraq. Uno Stato costruito in provetta, sotto l’iniziale controllo inglese, mentre una Siria più piccola rimaneva ai francesi.

La diaspora dei curdi ha queste origini. Un popolo che fu diviso e sparpagliato “dentro i confini di quattro Paesi”, come ricorda lo stesso D’Alema. Una spina nel fianco in altrettanti regimi che non brillano certo per le regole della democrazia e della convivenza che, forse (lo diciamo con mille dubbi), avrebbero potuto garantito una situazione meno conflittuale. In Siria le milizie curde hanno dato un apporto fondamentale nella lotta contro l’Isis. Il loro contributo di sangue e di sacrifici è stato essenziale. Ma lo hanno fatto con l’obiettivo di riaffermare una soggettività etnica che poteva diventare il presupposto per la creazione, se non proprio di uno Stato nazionale, almeno di “focolare”. Per riprendere il termine usato nella dichiarazione di Balfour, che portò alla nascita dello Stato d’Israele.

Questo quindi il complicato mosaico, sul quale si sono innestate le logiche e i contrasti delle grandi potenze: leggi Russia e Stati Uniti. La prima ormai padrona della Siria, grazie al sostegno offerto al regime di Bashar al-Asad, dal quale avevano ottenuto il rinnovo, nel gennaio del 2017, per altri 49 anni, della base di Tartus. La concessione originaria risaliva al 1971, quando esisteva ancora l’Unione sovietica. Logiche che si rinnovano. Ora, come allora, essa resta l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Che permette alle relative navi da guerra di non dover rientrare nel Mar Nero per le necessarie manutenzioni. Gli Americani, invece, erano fuori da quel teatro.

Nel 2015 gli Stati Uniti, con Obama, chiesero alla Turchia di impegnarsi, in prima persona, contro gli jihadisti. Anche per contrastare lo stesso Assad. Erdoğan, fin da allora, chiese la garanzia che liberato il Nord della Siria, non si sarebbe formato uno Stato cuscinetto sotto bandiera curda. Avrebbe, inevitabilmente, alimentato forme scissioniste, anche all’interno della Turchia, dove quella stessa minoranza è molto attiva. E politicamente organizzata. Basti pensare al PKK, l’organizzazione paramilitare che opera nel Paese, ricorrendo spesso ad attentati terroristici e grandi mobilitazioni di massa. Si comprendono, allora, le preoccupazioni di Erdogan, pur non giustificando la sua politica di aggressione.

L’Amministrazione americana, tuttavia, fin da allora, giocò su due tavoli. Coinvolse nella battaglia anche i curdi, facendo balenare loro la possibilità che, alla fine della guerra contro l’Isis, anche il loro problema nazionale potesse essere, in qualche modo, risolto. Strategia che traspare nelle rozze parole di Donald Trump: “Abbiamo dato loro soldi ed armi”. Con il retro pensiero che un nuovo Stato, seppure con una superficie limitata, potesse diventare una sorta di baluardo occidentale, per contenere l’eccessiva presenza russa. Prospettiva che Donald Trump, seppure in modo irragionevole ed affrettato, ha fatto cadere, nel rispetto delle promesse avanzate nella sua campagna elettorale, circa il ritiro delle truppe Usa presenti all’estero.

Il risultato di tante contraddizioni ed infingimenti si ritrova nell’avvio di un nuovo conflitto, dagli esiti imprevedibili. Il fatto è che, da sempre, nel Medio Oriente la realtà è mai quella che appare. Peggio di un’opera di Pirandello: “Così è (se vi pare)”.

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