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Vi spiego le 3 opzioni della Cina su Taiwan

A parte i toni aggressivi – a uso e consumo dell’opinione pubblica cinese – Pechino non si spingerà per Taiwan oltre le provocazioni e le minacce verbali. L'analisi di Carlo Jean

 

La coreografia del centenario della fondazione del Partito Comunista Cinese (Pcc) è stata perfetta. Xi Jinping ne ha approfittato per esaltare i successi della Cina e per illustrare le sue ambizioni. Ha sfruttato, per consolidare ancora il suo già indiscusso potere, il nazionalismo sempre molto forte dell’opinione pubblica, anche nel Pcc. Esso è sempre stato nazionalista, più leninista che marxista, centrato sul cancellare i “Trattati Ineguali” e gli effetti del “Secolo delle Umiliazioni”. Ha ribadito che nel 2049, centenario della vittoria di Mao Zedong, la Cina sarà la più forte potenza mondiale, sottolineando che il primo obiettivo di Pechino resta l’unificazione di Taiwan alla madrepatria e che tutte le opzioni, sia pacifiche che militari per tale obiettivo, restano aperte. Con uno stile tutto cinese, non ha però precisato i tempi della riunificazione. Recenti sondaggi hanno dimostrato che il 57% dei cinesi non sarebbe contrario ad un’azione militare e che il 37% vorrebbe che essa avvenisse entro 3-5 anni.

La massa dei cinesi ritiene che la risposta degli Usa e dei loro alleati – primo fra di essi il Giappone – consisterebbe in proteste e sanzioni, ma non in un intervento in forza.  È infatti persuaso che gli Usa siano in declino e che la Cina debba approfittare della situazione, prima che si consolidi l’alleanza fra Washington e New Delhi, mentre rimarrebbe salda quella fra Pechino e Mosca.

La politica americana nei confronti della sicurezza di Taiwan è stata ed è caratterizzata da un certo grado di ambiguità. Lo è dal 1972 quando, per permettere il viaggio a Pechino di Nixon e Kissinger gli Usa – fino ad allora alleati di Taiwan sul cui territorio schieravano 30.000 soldati – furono costretti ad accettare la politica dell’“Una Cina”, quindi dell’appartenenza dell’isola al Celeste Impero. Beninteso, gli Usa hanno reiterato, e non solo dichiarativamente, il loro impegno per la sicurezza dell’isola. Nel 1996, di fronte a minacce d’attacco cinese, Clinton aveva inviato nello Stretto di Taiwan due poderosi gruppi portaerei. Lo scorso mese, gli Usa e il Giappone hanno effettuato nell’area importanti esercitazioni navali, in chiara funzione anticinese. Ma non si tratta di un obbligo preciso, per cui è discussa la credibilità della dissuasione degli Usa. La probabilità di una loro risposta militare a difesa di Taiwan è messa in discussione da una Cina più sicura di sé e più aggressiva, consapevole di non poter essere isolata internazionalmente, data la sua integrazione nell’economia globalizzata. Lo si vede dalle difficoltà che oggi incontrano Usa ed Ue di svincolarsi dalle supply chain cinesi.

Da qualche tempo, anche per la maggior consapevolezza dei rischi connessi con l’ambiguità del loro impegno per Taiwan, gli Usa stanno adottando la cd “strategia del porcospino”. Essa consiste nel trasformare la montagnosa isola (nei suoi 35.000 kmq una quindicina di montagne superano i 3.000 m.) in una fortezza. Sono stati scavati centinaia di migliaia di bunkers, trasferiti miliardi di dollari di armamenti – antinave, contraerei, antimissili, drones e mezzi cyber – molto sofisticati. Le 14 piccole spiagge che si prestano ad un assalto anfibio sono state minate e fortificate. Le Forze Armate sono numerose: 400.000 u. compresa la ready reserve; un migliaio di carri armati e 3.000 lanciarazzi e pezzi d’artiglieria; oltre 500 aerei da combattimento; sommergibili e drones antinave, ecc. Un attacco anfibio comporta maggiori difficoltà dello Sbarco in Normandia. Le operazioni per la conquista dell’isola potrebbero protrarsi e richiedere mesi di flusso di rinforzi e di rifornimenti che sarebbero soggetti ad attacchi nello Stretto di Taiwan. Sarebbe un’operazione estremamente rischiosa. Secondo il comandante Usa dell’Indo-Pacifico, la Cina non sarebbe in grado di effettuarla almeno fino al 2035.

Risulta che gli strateghi cinesi stiano considerando altre tre opzioni. Primo, il blocco navale dell’isola, per indurla a cedere alla volontà di Pechino. Mi sembra rischiosa. Darebbe luogo a un controblocco, disastroso per l’economia cinese, dipendente dai trasporti marittimi per l’importazione di materie prime e l’esportazione dei prodotti manifatturieri. Tali trasporti possono essere bloccati a Ovest nello Stretto della Malacca, e a Est, verso le rotte del Pacifico, dalla “doppia catena di isole”, dominata dalla Marina degli Usa e dei loro alleati.

Secondo, una prolungata offensiva aerea e missilistica, che induca Taipei ad arrendersi a Pechino. La “strategia del porcospino” ne ridurrebbe l’efficacia. Darebbe tempo agli Usa e ai loro alleati di attaccare le basi cinesi. Si determinerebbe un’escalation e a una guerra totale che la Cina sa di non poter vincere.

Terzo, indurre gli Usa ad abbandonare Taiwan al suo destino, infliggendo con un attacco di sorpresa gravi danni alle forze americane del Pacifico, impedendo un loro intervento efficace a sostegno di Taipei per almeno 6-9 mesi, valutati necessari per l’occupazione dell’isola. Con il potenziamento da parte cinese dei missili nucleari intercontinentali, gli Usa sarebbe dissuasi dall’impiegare le loro forze nucleari strategiche. Anche questa terza opzione è rischiosa, al limite della pura follia. La perdita di Taiwan sarebbe per Washington quello che Suez fu nel 1956 per Londra: la fine dello status di grande potenza (solo che per Suez l’UK aveva dietro gli Usa, mentre per Taiwan, dietro gli Usa non hanno dietro nessuno).

In conclusione, a parte i toni aggressivi – a uso e consumo dell’opinione pubblica cinese – mi sembra probabile che Pechino non si spinga per Taiwan oltre le provocazioni e le minacce verbali. La situazione potrebbe divenire più rischiosa solo in caso di collasso dell’economia cinese o di crisi del potere del PCC, partito-Stato oggi saldamente egemonizzato da Xi Jinping. Ma tali eventualità mi sembrano del tutto inverosimili. La “nuova guerra fredda” non sarà caratterizzata da un conflitto sino-americano per Taiwan. Si svolgerà a differenza della prima, centrata sulla competizione strategica, in campo economico, finanziario e soprattutto tecnologico, nonché in quelli spaziale e cibernetico. Determinante per il suo esito sarà la capacità degli Usa di persuadere i loro alleati europei e asiatici di non subordinare le comuni esigenze della sicurezza alle “egoistiche” convenienze di fare affari con la Cina.

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